E’ difficile che Africa ExPress pubblichi
qualcosa fuori dal contesto africano o mediorientale.
Ma l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti
è talmente importante (e devastante) che non può essere
ignorata da un quotidiano come il nostro.
E quest’analisi di Claudio Gatti coglie nel segno.
m.a.a.
Claudio Gatti
New York, 7 novembre 2024
Il mondo intero oggi si chiede come Donald Trump possa aver stravinto le presidenziali americane. Sulla carta non sembra aver senso che un sociopatico, pluri-bancarottiere, molestatore sessuale, propagatore di menzogne, personificazione di conflitti d’interesse, negazionista elettorale sia stato scelto per la massima carica elettiva della democrazia più importante al mondo. Invece non c’è da sorprendersi.
La spiegazione principale viene dallo zoccolo duro del suo elettorato che, in buona, sostanza, ha lo stesso profilo di chi ha determinato i vincitori delle ultime elezioni in Austria, Italia, Olanda, Svezia e Ungheria: uomini bianchi con livelli di istruzione e di ceti sociali meno elevati.
Il granchio di Marx
Marx aveva preso un granchio quando aveva previsto che l’educazione democratica del proletariato e le contraddizioni economiche del sistema capitalistico avrebbero inevitabilmente portato al socialismo.
Con le classi più deboli (bianche) che oggi votano Meloni, Salvini, Wilders, Åkesson, Orban e Trump, non solo il socialismo rimane un’utopia irrealizzata ma la democrazia si sta trasformando in una parodia di se stessa.
E se Trump ha vinto è perché Kamala Harris è rimasta orgogliosamente ancorata a uno schema politico forse ormai superato.
I modelli occidentali
La realtà è che in America, come in Europa, la crisi dei modelli industriali occidentali ha aperto un varco politico per chiunque sia pronto a manipolare un elettorato che dal sogno americano, o quello del miracolo economico, è passato all’incubo dell’incertezza.
A questa fortissima ansia si è poi sommata la paura creata da flussi migratori apparentemente incontenibili di popoli diversi nel colore della pelle, nella cultura e nella religione. Tutto ciò, mentre la società subiva una trasformazione epocale.
Dal dominio degli industriali siamo scivolati nel dominio dei finanzieri per finire in quello degli influencer – dall’essere si è passati all’avere e ora all’apparire.
Appagamento politico
É quindi consequenziale che l’appagamento politico non sia più legato a benefici economici o sociali concreti, e che i politici più disinvolti stiano oggi offrendo soluzioni a pulsioni emotive – in primis ansia e paura – che hanno rivitalizzato istinti tribali primordiali.
Istinti ferocemente alimentati da media chiamati social ma che in realtà sono a-social, perché lo spettacolo su cui si reggono produce un enorme agglomerato di persone isolate ma unite attorno ad astrazioni che sostituiscono bisogni reali con voglia di rivincita.
Come nello sport, in politica non si chiedono ormai più cambiamenti strutturali – né palestre né strade, né piscine né scuole –, si chiede soprattutto la vittoria sull’avversario.
Dissoluzione dei partiti
Dalla dissoluzione dei partiti e delle ideologie ne è conseguita la dissoluzione delle idee politiche. Certo, la politica è sempre stata rappresentazione, ma se in passato i suoi protagonisti spesso vendevano un’illusione ideologica, ora offrono un’illusione fine a se stessa.
Nel passaggio da una politica dell’apparizione a una politica dell’apparente, non vince più chi sa vendere un’idea meglio degli altri, ma chi riesce a illudere gli elettori non avendo alcunché da vendere. In un certo senso siamo davanti alla versione contemporanea di ciò che per secoli ha provocato la lusinga religiosa: la rappresentazione non solo viene vissuta come realtà ma la sua forza emotiva prevale su di essa.
Base ideologica
In una società che si esprime nello spettacolo non è solo il linguaggio (con i talk-show che dalla dialettica sono transitati verso l’invettiva) ma i contenuti stessi della politica a essere spettacolo, non avendo più né una base ideologica né un fine. Ed ecco che i più disinibiti, i più sfacciati, i più aggressivi non solo ottengono più “like” ma si accaparrano il monopolio dell’apparenza.
Con i nuovi modelli informativi che hanno abolito le barriere tra vero e falso rimuovendo ogni verità vissuta, la politica non può che essere dominata da idee e personaggi fittizi.
Stupefacente bugiardo
E Trump è il più falso di tutti, uno stupefacente bugiardo che contempla se stesso nel mondo immaginario che riesce a rendere “vero” nella mente del suo elettore trasformando la sua menzogna in realtà.
Quasi sessanta anni fa, nel suo libro “La società dello spettacolo”, il filosofo francese Guy Debord sostenne che “lo spettacolo non vuole giungere a nient’altro che a se stesso”.
Questo sicuramente vale anche per Trump. Il suo ex capo di gabinetto, il generale John Kelly, lo ha chiamato fascista, ma al di là delle sue inclinazioni personali (che io definirei fascistoidi, perché Trump non sa nulla del fascismo, prova solo affinità per i dittatori), “the Donald” non ha un progetto ideologico.
Eppure, come Mussolini, è bravissimo a trasmettere l’immagine eroica di garante dei bisogni del popolo.
Metafore artistiche
La sua vittoria è il trionfo del dadaismo politico, perché il suo successo non si basa su alcuna teoria, bensì è la negazione di tutti i valori politici tradizionali o anche solo razionali e si basa sull’esaltazione di istinti arbitrari dell’individuo.
E rimanendo nelle metafore artistiche, è interessante notare che il prossimo 20 novembre, a New York, Sotheby’s metterà all’asta la banana attaccata al muro con nastro adesivo, opera concettuale pensata da Maurizio Cattelan svariati anni fa (con la banana stessa che viene sostituita ogni due o tre giorni per evitare che marcisca).
Un milione di dollari
La stima di partenza sarà di un milione di dollari. Pur non avendo le pretese (o gli strumenti intellettuali) di Cattelan, Trump lo ha sicuramente superato nell’arte della vendita di un’astrazione. Ancora una volta gli americani hanno comprato la sua banana. E non occorrerà una vignetta di Altan per farci capire che non saranno gli unici a pagarla cara.
Claudio Gatti*
*Claudio Gatti è uno giornalista e scrittore d’inchiesta di base a New York autore di nove libri, l’ultimo dei quali è “Il quinto scenario, atto secondo –Le risposte dopo decenni di domande” (Fuoriscena, maggio 20024). La sua pagina Facebook è https://www.facebook.com/profile.php?id=61567563315866
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Opinione rispettabile ma proceniente dalla casta di sinistra che non offre soluzioni bensì constatazioni magari con un certo ribrezzo altezzoso. Quando proposte pratiche su come risolvere la questione? Magari togliendo i social ai meno di sedicenni come presto in Australia? Crisi di idee, ma analisi forbite ahimè inutili. Ci siamo dentro, l’intellighenzia suggerisca praticamente come uscirne