Questo lungo articolo è il frutto di un interessante reportage effettuato
in Israele da uno dei migliori giornalisti investigativi d’Europa.
Purtroppo, la traduzione che pubblichiamo in italiano non rende al meglio
lo spirito dell’articolo e il sentimento che ha animato l’autore.
Alla fine, comunque, trovate il testo in francese.
Consigliamo, per chi può, di leggere la versione originale.
Africa ExPress
Dal sito Mediapart**
Joseph Confavreux*
Tel Aviv, 19 ottobre 2023
“Piango sempre. Piango ogni giorno. Ma non piango solo per i miei genitori, anche se pochi figli hanno amato i loro genitori quanto me. Piango perché questa guerra deve essere fermata immediatamente, la spirale di sangue e il ciclo di uccisioni devono finire”.
Con la voce rotta ma con le parole chiare, Maoz Inon ha visto la sua vita distrutta il 7 ottobre. Bilha e Yakovi Inon, i suoi genitori settantenni, sono stati bruciati vivi quando i combattenti di Hamas hanno dato fuoco alla piccola casa di legno in cui vivevano nel villaggio di Netiv HaAsara, a pochi passi dal valico di frontiera di Erez, nel nord di Gaza.
“L’unica cosa che mi consola è che sono morti come hanno vissuto: insieme. So per certa una cosa: non avrebbero mai voluto essere vendicati”.
Netiv HaAsara è il comune più vicino al confine di cemento e metallo che circonda Gaza: solo poche centinaia di metri. Ma l’insediamento dista anche solo 60 chilometri da Tel Aviv, tanto è piccola la porzione del territorio dove oggi si gioca parte del futuro del mondo. E quando i suoi genitori si sono stabiliti a Netiv HaAsara, più di trent’anni fa, c’era libertà di movimento tra Gaza e il resto di Israele…
“A quel tempo – continua – i miei genitori vedevano regolarmente amici palestinesi. E molte persone di Gaza venivano a lavorare nei frutteti di Netiv HaAsara. Mio padre aveva stretti legami con i beduini del Negev. Nell’ultima settimana ho ricevuto continuamente messaggi di cordoglio da parte loro”.
Maoz Inon è un imprenditore con una coscienza sociale, nato in una famiglia di operai e agricoltori, che ha co-fondato i tre hotel Abraham a Gerusalemme, Tel Aviv ed Eilat: luoghi che mirano a far conoscere ai viaggiatori non solo i siti turistici del Paese, ma anche le diverse componenti della società israeliana, senza dimenticare la condizione dei palestinesi. Attualmente, i suoi alberghi sono utilizzati dai 500.000 israeliani evacuati dal nord e dal sud del Paese.
Non condivide forse il desiderio di sradicare Hamas dopo quello che ha fatto? “L’unico modo per eliminare Hamas è dare speranza – risponde immediatamente -. La speranza è l’unica arma veramente efficace che abbiamo. E questa speranza può basarsi solo sul principio di una terra condivisa e di una società condivisa: un principio che difendo da 25 anni”.
“Sapete, – continua – non sono un intellettuale, non ho nemmeno il diploma di maturità, ma l’unica cosa che mi impedisce di crollare in questi tempi bui è guardare alla storia. L’attuale rapporto tra Francia e Germania poteva essere immaginato nel 1945? Chi avrebbe pensato che proprio in questo momento gli israeliani avrebbero cercato rifugio a Berlino?”.
Non è necessario porgli una domanda perché continui. “Sento che lei pensa che io sia un ingenuo. Ma non sono ingenuo, anche se credo nel potere dell’ottimismo. La vera ingenuità sta nel pensare che la guerra possa risolvere tutto”.
Come possiamo evitare di “andare verso il peggio”? “Non sono un politico – risponde Maoz -. Ma la cosa urgente è congelare la situazione. Costruiamo una coalizione. Costruiamo una strategia. Ma non aspettiamoci altre morti e sofferenze. Ne abbiamo avute abbastanza da entrambe le parti. Penso che sia possibile per tutti riconoscere il dolore dell’altro e provare pena per l’altro. Credo di essere fedele ai miei genitori nell’implorare il mondo di aiutarci a fare la pace”.
Il campo della pace decimato
Avner Gvaryahou è diventato recentemente direttore di Breaking the Silence, un’organizzazione composta da ex soldati che si oppongono all’occupazione della Cisgiordania e documentano i crimini commessi dai coloni e dall’esercito contro i palestinesi.
Fa una pausa prima di parlare. “Uno dei nostri, Shahar Zemach, membro del Kibbutz Be’eri, è stato ucciso in circostanze atroci il 7 ottobre. Da allora mi sono chiesto cosa lui avrebbe pensato. E non credo che avrebbe voluto vendicarsi. Come molta gente del Sud, era un uomo di pace”.
Molte delle persone massacrate o rapite da Hamas erano attivisti politicamente attivi, non solo contro il governo Netanyahu, ma anche a sostegno del popolo palestinese.
Come Hayim Katzman, che ha testimoniato per Breaking the Silence ed è stato uno dei pochi israeliani impegnati nella difesa di Masafar Yatta, un gruppo di villaggi sulle colline di Hebron i cui abitanti palestinesi sono stati ridotti a vivere in grotte dall’esercito israeliano.
O Vivian Silver, scomparsa e presunto ostaggio. Questa israeliana di origine canadese era una figura importante nel campo della pace israeliano. Volontaria di Road to Recovery, si recava a Gaza più volte alla settimana per raccogliere i palestinesi bisognosi di cure mediche, a partire dalla chemioterapia, e portarli negli ospedali di Tel Aviv e Gerusalemme. Nel 2014, dopo la prima guerra tra Israele e Hamas, ha co-fondato Women Wage Peace, un gruppo di donne della società civile israeliana e palestinese che chiede un accordo di pace.
Il 4 ottobre, tre giorni prima dell’attacco di Hamas, ha organizzato e partecipato a una manifestazione a Gerusalemme che ha riunito un migliaio di donne palestinesi e israeliane per chiedere la pace e spingere affinché le donne prendano posto al tavolo dei negoziati.
“La questione – continua Avner Gvaryahou – è come mantenere la nostra umanità quando sono stati commessi atti disumani. Ovviamente il 7 ottobre ha stravolto tutto. Ma è proprio perché i nostri valori sono stati infranti quel giorno che devono rimanere la nostra bussola. In quest’ottica, è chiaro che non si può ottenere nulla di buono da una risposta meramente militare o basata unicamente sulla forza. La via d’uscita può essere solo politica”.
Come ex soldato, rivendica “il diritto di Israele a difendersi”. “Per non parlare del fatto che oggi tutti noi abbiamo amici e familiari in prima linea – aggiunge -. Ma una volta riconosciuta la portata dei crimini di Hamas, possiamo dire che, in termini di sicurezza, questo governo ha dato priorità ai coloni in Cisgiordania rispetto alla protezione del confine con Gaza”.
Alcune persone in questo governo
vogliono capitalizzare questo momento in cui non abbiamo
ancora finito di piangere i nostri morti”.
Avner Gvaryahou, direttore di Breaking the Silence
Molti ricordano che alcuni dei soldati normalmente presenti nei pressi di Gaza sono stati requisiti per proteggere i coloni che volevano organizzare una celebrazione di Sukkot venerdì 6 ottobre a Huwara, una cittadina palestinese vicino a Nablus che dall’inizio dell’anno è diventata l’epicentro delle tensioni in Cisgiordania.
“Su questo punto è essenziale essere perfettamente chiari – continua Avner Gvaryahou -. La responsabilità degli omicidi è degli assassini. E nessun essere umano può giustificare le atrocità commesse. Questo non vuol dire che non ci sia anche una colpa da parte di questo governo, che ha concentrato le sue energie e i nostri soldati nella Cisgiordania occupata”.
Tuttavia, il pericolo, secondo il direttore di Breaking the Silence, è che “alcuni in questo governo vogliono capitalizzare questo momento in cui gli israeliani non hanno ancora finito di identificare, seppellire e piangere i loro morti. Stanno cercando di approfittare dello shock per portare avanti la loro agenda, che è quella di colonizzare sempre di più, di stabilire uno Stato di apartheid dal Giordano al mare, e persino di riconquistare Gaza. Dal 7 ottobre, decine di palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania, persone sono state aggredite e altre espulse dalla loro terra”.
Guy Hirschfeld, uno dei fondatori dell’organizzazione Mistaclim LaKibush Ba’Aynayim (che letteralmente si traduce in “Guardare l’occupazione negli occhi”), ritiene inoltre che “l’estrema destra stia cercando di sfruttare le atrocità del 7 ottobre per promuovere la propria agenda. Dobbiamo capire che siamo di fronte a un governo basato su veri e propri fascisti che credono di avere una missione diretta da Dio. Sono l’immagine speculare di Hamas”.
Ma la sinistra anti-occupazione è stata in grado di guardare Hamas negli occhi o ha trascurato la natura profondamente fondamentalista, violenta e odiosa di questo movimento e la sua pretesa di presentarsi come l’incarnazione della resistenza palestinese anche alternativa all’Autorità Palestinese delegittimata e corrotta?
Per Guy Hirschfeld, “ciò che Hamas ha fatto è disumano. Penso – aggiunge – che i mezzi usati danneggino la causa che dicono di difendere. Ma questo non invalida il fatto che la resistenza armata sia uno degli strumenti a disposizione di chi lotta per la propria libertà e per il proprio Paese. È quello che hanno fatto Menachem Begin e Yithzak Shamir nel 1947 e nel 1948 per permettere la fondazione di Israele”, in riferimento ai due ex primi ministri di Israele che hanno combattuto la presenza britannica in Palestina con le armi in pugno.
Massacri crudeli
Michel Warschawski, figura storica della sinistra israeliana, è sulla stessa lunghezza d’onda: “Hamas non è mai stata la tazza di tè di un progressista, radicale o meno. Ma resta il fatto che si tratta di un’organizzazione di resistenza palestinese, anche se non condividiamo nessuno dei suoi valori. Non è sorprendente che Gaza sia finita per esplodere, date le condizioni in cui i suoi abitanti erano costretti a sopravvivere. È deplorevole che sia stato Hamas a innescare l’esplosione”.
“L’obiettivo di smantellare Hamas – continua – non deve portarci a sprofondare nelle nostre stesse barbarie. A mio avviso, c’è una simmetria tra le barbarie di Hamas e le nostre, poiché anche loro uccidono bambini, donne e civili a centinaia”.
È possibile un parallelo, nonostante la particolare crudeltà dei massacri di Hamas, con corpi smembrati, bambini decapitati e ragazze adolescenti bruciate vive? “Sì, afferma. Siamo un Paese ricco e abbiamo un esercito potente. Questo ci permette di affermare che rimaniamo civilizzati perché agiamo in modo presumibilmente ‘chirurgico’. Ma questo non corrisponde alla realtà di ciò che sta accadendo oggi a Gaza”.
Per gli attivisti anti-occupazione, la cecità nei confronti di Hamas, sia in termini di sottovalutazione delle sue capacità logistiche che di fiducia in una forma di “normalizzazione” politica, non è da imputare a loro, ma al governo.
“Benyamin Netanyahu e Bezalel Smotrich (avvocato e politico israeliano, membro della Knesset, leader del Partito Sionista Religioso di estrema destra. Ministro delle Finanze nel governo Netanyahu, ndr) hanno dichiarato esplicitamente che Hamas a Gaza era un modo per dividere la leadership palestinese e accantonare la prospettiva di uno Stato palestinese, sommando la divisione politica alla separazione geografica tra Gaza e Cisgiordania – aggiunge Avner Gvaryahou -. Hanno lasciato che il Qatar versasse denaro a Gaza e che Hamas gestisse il territorio, ignorando la realtà di questa organizzazione e pensando che la situazione servisse in ultima analisi i loro interessi. Questo è anche il motivo per cui sono incapaci di assumersi la responsabilità di ciò che è accaduto il 7 ottobre”.
“Ho perso mia figlia ma non il mio cervello”.
Il padre di una giovane donna uccisa da Hamas
Lo pensa anche Heled Varda, pediatra in pensione che vive a Gerusalemme e membro dell’organizzazione Combattants pour la paix (Combattenti per la pace), che mette in guardia sulle condizioni di vita dei palestinesi nella Cisgiordania occupata, cerca di proteggerli dagli attacchi dei coloni e visita le famiglie di coloro che sono stati aggrediti, feriti o uccisi.
“Netanyahu – spiega – non si è limitato ad assecondare la conquista di Gaza da parte di Hamas, ma ha pensato di usarla per indebolire l’Autorità Palestinese e allontanare qualsiasi prospettiva di creazione di uno Stato palestinese”.
“Questo governo – continua l’autrice -, che faccio fatica a chiamare governo perché è principalmente un gruppo di delinquenti, vuole trasformare la vendetta in una strategia nazionale. È catastrofico. Eppure ho sentito di recente il padre di una giovane donna uccisa da Hamas dire: ‘Ho perso mia figlia ma non il mio cervello’. Dobbiamo trovare un accordo con il nostro nemico, anche se orribile, perché sappiamo che i bombardamenti non cambieranno nulla. Più terroristi uccidiamo in questo modo, più terroristi ci saranno per sostituirli. Abbiamo visto i risultati delle guerre di ‘cambio di regime’ condotte dagli Stati Uniti”.
Questo video è stato trasmesso da varie televisioni di tutto il mondo. Non siamo stati in grado di verificarne l’autenticità. Abbiamo deciso di pubblicarlo lo stesso, avvisando i nostri lettori. Purtroppo in ogni guerra la verità è una delle vittime. Occorre fare grande attenzione: la propaganda è sempre in agguato per uccidere la verità
Il suo rapporto con i palestinesi è stato trasformato dalla sequenza di sangue inaugurata da Hamas il 7 ottobre? “Parliamo ancora molto e le cose vanno bene – spiega la pediatra -. Non riesco nemmeno a contare il numero di messaggi di solidarietà che ho ricevuto dopo i massacri di Hamas. E io dico loro che sono contraria ai bombardamenti su Gaza”.
Tuttavia, sembra che, per citare Arielle Angel, direttrice della rivista Jewish Currents, in un testo forte tradotto nel Club de Mediapart, “Le già complesse e fragili relazioni tra attivisti di sinistra palestinesi ed ebrei, così come tra le correnti all’interno di queste due entità, siano minate dal fatto che fatichiamo a trovare un significato comune alle immagini che ci raggiungono attraverso i nostri schermi. Amici e colleghi di tutte le parti sono feriti dalle reazioni pubbliche con gli altri, o dal loro silenzio”.
“Ho diversi amici di sinistra
che hanno sempre creduto che una pace giusta
fosse l’unica soluzione e che ora pensano
che Gaza debba pagare il prezzo del sangue”.
Tomer Avital, attivista per la pace
Anche se molti preferiscono tenere per sé i propri sentimenti, lo shock del 7 ottobre è stato tale da aver provocato profonde fratture. “Ho diversi amici di sinistra che hanno sempre creduto che una pace giusta fosse l’unica soluzione e che ora pensano che Gaza debba pagare il prezzo del sangue. Questo mi rattrista enormemente”, afferma Tomer Avital, giornalista freelance specializzato in corruzione, che ha partecipato a tutte le manifestazioni contro la riforma della Corte Suprema attuata dall’attuale governo.
Tomer ha 40 anni, due figli piccoli ed è preoccupato per il loro futuro. “Anche se l’esercito conquisterà Gaza, cosa faremo dopo? Aspettiamo altri spargimenti di sangue tra cinque anni o tra cinquant’anni? Abbiamo visto che tutta la nostra tecnologia non può proteggerci. L’unico modo per difenderci veramente è fare la pace. Questo conflitto è innanzitutto territoriale prima che religioso. Dobbiamo riuscire a raggiungere un accordo per garantire la sicurezza di entrambi i nostri popoli.
Tomer Avital aveva programmato di girare il mondo per due o tre anni l’anno prossimo con la moglie e i figli. “Ma abbiamo deciso di comune accordo di aspettare. Non possiamo lasciare il Paese in questo stato, perché potremmo non avere un posto dove tornare. Sono estremamente preoccupato che Netanyahu sia al comando in un momento cruciale come questo. Ma ricordo anche che solo cinque anni dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973 furono firmati gli accordi di Camp David. Dobbiamo porre fine a questo conflitto una volta per tutte. Non avverrà senza sacrifici, in particolare lo smantellamento degli insediamenti, ma è l’unica soluzione a lungo termine se non voglio che i miei figli si trovino a combattere un’altra guerra con Gaza tra diciotto anni”.
Tutti coloro che rimangono pacifici in un Paese in guerra condividono l’idea che una soluzione politica sia possibile, perché è l’unico modo per pensare a un futuro che non sia così cupo come il presente.
“L’unico modo per indebolire Hamas – sostiene Avner Gvaryahou – è trovare uno sbocco politico diverso da quello che esiste oggi. Dobbiamo iniziare a pensare al giorno dopo. Oggi sono in gioco i destini del popolo palestinese e di quello israeliano”.
I nostri alleati, se fossero veri amici,
potrebbero costringere
Israele a porre fine all’occupazione.
Guy Hirschfeld, fondatore di “Guardare l’occupazione negli occhi”.
Per Michel Warchawski: “Quando c’è la volontà politica, tutto è possibile nella giusta direzione. Ma abbiamo la sensazione che la società sia ancora divisa tra coloro che sono pronti al compromesso e gli irriducibili. Anche se condivido la sensazione sempre più diffusa che la fine sia vicina per il regime di Netanyahu, già odiato da un’intera parte del Paese per i suoi attacchi alla democrazia e ora criticato da chi lo ritiene inadatto a gestire le questioni di sicurezza e militari”.
Tuttavia, Guy Hirschfeld vede due condizioni necessarie per ribaltare la situazione attuale e trovare una soluzione politica. “In primo luogo i nostri alleati, se fossero veri amici, potrebbero costringere Israele a porre fine all’occupazione. Non siamo un Paese realmente indipendente. Senza il sostegno occidentale, sia esso militare, finanziario o sostenuto dal veto alle Nazioni Unite, Israele non esisterebbe. Come cittadino israeliano, vi chiedo ora di costringerci a venire al tavolo dei negoziati e di impedirci di commettere ulteriori massacri a Gaza. Poi ci vorrà una guerra civile”.
Cosa ci vorrà? La guerra con Hamas non è sufficiente? È una metafora per mobilitare le forze di sinistra per le prossime elezioni? “No, sono serio – continua Guy Hirschfeld -. Siamo di fronte a suprematisti ebrei che hanno fatto del dominio razziale il loro obiettivo. Dovremo combattere se vogliamo che lascino i territori occupati. Per far deragliare il processo di Oslo, che era il momento in cui eravamo più vicini alla pace, non hanno esitato a uccidere il Primo Ministro (L’assassinio del Primo Ministro di Israele e Ministro della Difesa Yitzhak Rabin avvenne il 4 novembre 1995 al termine di una manifestazione in favore del processo di pace e degli Accordi di Oslo. Rabin era osteggiato dalla destra nazionalista e conservatrice e dai leader del Likud che consideravano gli accordi di Oslo come un tentativo di abbandonare i Territori occupati. L’assassinio segnò la fine degli accordi di Oslo, ndr). Oggi queste persone sono al potere. Dobbiamo riprendercelo, e non credo che si possa fare solo con mezzi pacifici”.
Joseph Confavreux*
*Giornalista di France Culture tra il 2000 e il 2011, è entrato a far parte di Mediapart nel maggio 2011. Joseph Confavreux è membro del comitato editoriale della rivista Vacarme, ha coeditato il libro La France invisible (La Découverte, 2006) e ha pubblicato altre due opere, Egypte :histoire, société, culture (La Découverte, 2009), e Passés à l’ennemi, des rangs de l’armée française aux maquis Viet-Minh (Tallandier, 2014). È anche condirettore della Revue du Crieur.
** Mediapart è una prestigiosa rivista online indipendente di investigazione e opinione francese, creata nel 2008 da Edwy Plenel, ex redattore capo di Le Monde. E’ pubblicata in francese, inglese e spagnolo, non ospita nessuna pubblicità per preservare la propria indipendenza dal potere economico e politico. Può essere consultata solo in abbonamento.
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En Israël, les militants anti-occupation
veulent garder le cap malgré la douleur
Ce sont des voix minoritaires mais précieuses. Dans un pays traumatisé par les attaques du Hamas, où l’esprit de revanche, voire de vengeance, anime le sommet de l’État et les profondeurs de la société, les pacifistes tentent encore de se faire entendre.
Du site Mediapart**
Joseph Confavreux*
Tel-Aviv (Israël), 19 octobre 2023
« Je pleure tout le temps. Tous les jours. Mais je ne pleure pas seulement pour mes parents, même si peu d’enfants ont autant aimé leurs parents que moi. Je pleure parce qu’il faut arrêter immédiatement cette guerre, cesser la spirale sanguinaire et le cycle des tueries.»
Voix brisée mais propos cristallin, Maoz Inon a vu sa vie partir en miettes le 7 octobre dernier. Bilha et Yakovi Inon, ses parents septuagénaires, sont morts, brûlés vifs, lorsque des combattants du Hamas ont incendié la petite maison de bois où ils vivaient dans le village de Netiv HaAsara, à quelques encablures du poste-frontière d’Erez, au nord de Gaza.
«La seule chose qui m’apporte un peu de consolation, c’est qu’ils sont morts comme ils ont vécu : ensemble. Et la chose dont je suis certain, c’est qu’ils n’auraient en aucun cas voulu être vengés.»
Netiv HaAsara est la municipalité le plus proche de la bordure de béton et de métal entourant Gaza : à peine quelques centaines de mètres. Mais le moshav se situe aussi à seulement 60 kilomètres de Tel-Aviv, tant l’échelle du territoire où se joue aujourd’hui une part de l’avenir du monde est réduite. Et lorsque ses parents se sont installés dans Netiv HaAsara il y a plus d’une trentaine d’années, la circulation entre Gaza et le reste d’Israël était libre…
« À cette époque, poursuit-il, mes parents voyaient régulièrement des amis palestiniens. Et beaucoup de gens de Gaza venaient travailler dans les vergers de Netiv HaAsara. Mon père était très lié avec les Bédouins du Néguev. Depuis une semaine, je n’ai pas cessé de recevoir des messages de condoléances venant d’eux. »
Maoz Inon est un entrepreneur à la fibre sociale, issu d’une famille d’ouvriers et d’agriculteurs, qui a notamment cofondé les trois hôtels Abraham, situés à Jérusalem, Tel-Aviv et Eilat : des lieux qui cherchent à faire découvrir aux voyageurs et voyageuses non seulement les sites touristiques du pays, mais aussi les différentes composantes de la société israélienne, sans oblitérer le sort des Palestinien·nes. En ce moment, ses hôtels sont mis à disposition des 500 000 israélien·nes évacué·es du nord et du sud du pays.
Ne partage-t-il pas, néanmoins, la volonté d’éradiquer le Hamas après ce qu’il a fait ? « Mais la seule manière d’éliminer le Hamas, c’est de donner de l’espoir !, répond-il immédiatement. L’espoir est la seule arme véritablement efficace dont nous disposons. Et cet espoir ne peut se fonder que sur le principe d’une terre et d’une société partagées : un principe que je défends depuis 25 ans. »
« Vous savez, enchaîne-t-il, je ne suis pas un intellectuel, je n’ai même pas le bac, mais la seule chose qui me permet de ne pas m’effondrer dans cette période obscure, c’est de regarder l’histoire. La relation actuelle entre la France et l’Allemagne aurait-elle été seulement imaginable en 1945 ? Qui aurait pu croire qu’en ce moment même des Israéliens aillent trouver refuge à Berlin ? »
Il n’est pas nécessaire de lui poser la question pour qu’il poursuive. « Je sens que vous me trouvez naïf. Mais je ne suis pas naïf, même si je crois à la force de l’optimisme. La vraie naïveté est de penser qu’on va régler quoi que ce soit en faisant la guerre. »
Comment, alors, éviter le « cap au pire » ? « Je ne suis pas un politicien, répond Maoz. Mais l’urgence est de geler la situation. Construisons une coalition. Construisons une stratégie. Mais n’attendons pas davantage de morts et de douleurs. Nous avons suffisamment eu notre lot des deux côtés. Il me semble possible que chacun reconnaisse la peine de l’autre et ait pitié. Je pense être fidèle à mes parents en implorant le monde de nous aider à faire la paix. »
Le camp de la paix décimé
Avner Gvaryahou dirige depuis peu l’organisation Breaking the Silence, composée d’anciens soldats s’opposant à l’occupation de la Cisjordanie et documentant les crimes commis par des colons ou des militaires à l’égard de Palestinien·nes.
Il marque une pause avant de s’exprimer. « Un des nôtres, Shahar Zemach, membre du kibboutz Be’eri, a été assassiné dans des conditions atroces le 7 octobre dernier. Depuis, je réfléchis en tentant de penser à ce que Shahar aurait pensé. Et je ne crois pas qu’il aurait voulu prendre sa revanche. Comme beaucoup de gens du Sud, c’était un homme de paix. »
Parmi les personnes massacrées ou kidnappées par le Hamas, plusieurs étaient des militantes et militants actifs politiquement, non seulement contre le gouvernement Nétanyahou, mais aussi dans le soutien au peuple palestinien.
Tel Hayim Katzman, qui avait témoigné pour Breaking the Silence et faisait partie des rares Israélien·nes engagé·es dans la défense de Masafar Yatta, un ensemble de hameaux situés dans les collines de Hébron dont les habitantes et habitants en sont réduits, à cause de l’armée israélienne, à vivre dans des grottes.
Ou bien Vivian Silver, disparue et présumée otage. Cette Israélienne d’origine canadienne est une figure majeure du camp de la paix en Israël. Bénévole pour Road to Recovery, elle se rendait à Gaza plusieurs fois par semaine pour aller chercher des Palestiniens et Palestiniennes ayant besoin de soins médicaux, à commencer par les chimiothérapies, et les emmener dans des hôpitaux de Tel-Aviv ou de Jérusalem. En 2014, après une première guerre entre Israël et le Hamas, elle avait cofondé Women Wage Peace, un groupe de femmes issues de la société civile israélienne et palestinienne exigeant un accord de paix.
Le 4 octobre, trois jours avant l’attaque du Hamas, elle avait organisé et participé à une manifestation à Jérusalem rassemblant un millier de femmes palestiniennes et israéliennes pour revendiquer la paix et pousser à ce que des femmes prennent place à la table des négociations.
« La question qui se pose, poursuit Avner Gvaryahou, c’est de savoir comment s’accrocher à notre humanité alors que des actes inhumains ont été commis. Il est évident que le 7 octobre a tout bouleversé. Mais c’est précisément parce que nos valeurs ont été éventrées ce jour-là qu’il faut qu’elles restent notre boussole. À cette aune, il est évident que rien de bon ne peut venir d’une réponse simplement militaire ou seulement fondée sur la force. Le débouché ne peut être que politique. »
En tant qu’ancien soldat, il revendique « le droit d’Israël à se défendre ». « Sans même parler du fait que nous avons tous aujourd’hui des amis et des membres de notre famille sur le front, précise-t-il. Mais, une fois reconnue l’ampleur des crimes du Hamas, il est possible de dire que ce gouvernement a, en termes de sécurité, donné la priorité aux colons de Cisjordanie sur la protection de la bordure avec Gaza. »
Certains, dans ce gouvernement,
veulent capitaliser sur ce moment
où nous n’avons même pas fini […]
de pleurer nos morts.
Avner Gvaryahou, directeur de Breaking the Silence
Beaucoup rappellent qu’une partie des soldats normalement présents près de Gaza avaient été réquisitionnés pour protéger des colons désireux d’organiser, vendredi 6 octobre, une fête de Souccot à Huwara, bourgade palestinienne proche de Naplouse, devenue l’épicentre des tensions en Cisjordanie depuis le début de l’année.
« Sur ce point, il est fondamental d’être parfaitement clair, poursuit Avner Gvaryahou. La responsabilité des meurtres reste sur les mains des meurtriers. Et tout être doté d’humanité ne peut excuser les atrocités commises. Cela ne veut pas dire qu’il n’y ait pas, aussi, une faute de ce gouvernement, qui a concentré son énergie et nos militaires en Cisjordanie occupée. »
Le danger, juge toutefois le directeur de Breaking the Silence, est que « certains, dans ce gouvernement veulent capitaliser sur ce moment où [les Israéliens n’ont] même pas fini d’identifier, d’enterrer et de pleurer [leurs] morts. Ils cherchent à profiter du choc pour faire avancer leur agenda qui consiste à coloniser toujours plus et établir un État d’apartheid du Jourdain à la mer, voire reconquérir Gaza. Depuis le 7 octobre, il y a eu en Cisjordanie des dizaines de Palestiniens tués, des gens agressés, d’autres expulsés de leur terre ».
Guy Hirschfeld, l’un des fondateurs de l’organisation Mistaclim LaKibush Ba’Aynayim (que l’on peut traduire littéralement par « Regarder l’occupation les yeux dans les yeux »), estime aussi que « l’extrême droite tente d’exploiter les atrocités du 7 octobre pour pousser son agenda ». « Il faut comprendre que nous sommes face à un gouvernement reposant sur d’authentiques fascistes qui se pensent missionnés directement par Dieu. Ils sont le miroir du Hamas. »
La gauche anti-occupation a-t-elle pour autant bien regardé le Hamas les yeux dans les yeux ou a-t-elle pu négliger la nature profondément intégriste, violente et haineuse de ce mouvement au nom du fait que ce dernier se présente comme l’incarnation de la résistance palestinienne face à une Autorité palestinienne délégitimée et corrompue ?
Pour Guy Hirschfeld, « ce qu’a fait le Hamas est inhumain ». « Je pense, précise-t-il, que les moyens employés abîment la cause qu’ils prétendent défendre. Mais cela n’invalide pas le fait que la résistance armée fait partie des outils à disposition des peuples qui se battent pour leur liberté et leur pays. C’est ce qu’ont fait Menahem Begin et Yithzak Shamir en 1947 et 1948 pour permettre la fondation d’Israël », en référence à deux anciens premiers ministres d’Israël ayant combattu les armes à la main la présence anglaise en Palestine.
Cruauté des massacres
Michel Warschawski, figure historique de la gauche israélienne, est sur une longueur d’onde similaire : « Le Hamas n’a jamais été la tasse de thé des progressistes, qu’ils soient radicaux ou non. Mais il n’empêche que c’est une organisation de la résistance palestinienne, même si nous ne partageons aucune de ses valeurs. Il n’est pas surprenant que Gaza ait fini par exploser, au vu des conditions dans lesquelles ses habitants étaient contraints de survivre. Il est regrettable que ce soit le Hamas qui ait déclenché l’explosion. »
« L’objectif de démanteler le Hamas ne doit pas conduire à sombrer dans notre propre barbarie. Or il existe, selon moi, une symétrie entre la barbarie du Hamas et la nôtre, puisqu’on assassine aussi des enfants, des femmes et des civils par centaines. »
Le parallèle est-il possible, en dépit de la cruauté particulière des massacres du Hamas, avec des corps démembrés, des bébés décapités, des adolescentes brûlées vives ? « Oui, assume-t-il. Nous sommes un pays riche et nous possédons une armée puissante. Cela nous permet de prétendre que nous restons civilisés parce que nous agirions de façon prétendument “chirurgicale”. Mais cela ne correspond pas à la réalité de ce qui se passe à Gaza aujourd’hui. »
Pour les militants et militantes anti-occupation, l’aveuglement sur le Hamas, à la fois en termes de sous-estimation de ses capacités logistiques et de croyance en une forme de « normalisation » politique, n’est donc pas à mettre sur leur dos, mais bien sur celui du gouvernement.
« Benyamin Nétanyahou ou Bezalel Smotrich ont explicitement formulé que le Hamas à Gaza permettait de diviser le leadership palestinien et de mettre aux oubliettes la perspective d’un État palestinien en ajoutant la division politique à la séparation géographique entre Gaza et la Cisjordanie, complète Avner Gvaryahou. Ils ont laissé le Qatar déverser de l’argent sur Gaza et le Hamas gérer le territoire en négligeant la réalité de cette organisation et en pensant que la situation servait, in fine, leurs intérêts. C’est aussi pour cela qu’ils sont incapables de prendre leurs responsabilités dans ce qui s’est passé le 7 octobre. »
J’ai perdu ma fille mais pas mon cerveau.
Le père d’une jeune femme assassinée par le Hamas
C’est également ce que pense Heled Varda, une pédiatre retraitée vivant à Jérusalem et membre de l’organisation des Combattants pour la paix, qui alerte sur les conditions de vie des Palestinien·nes en Cisjordanie occupée, cherche à les protéger contre les agressions des colons ou visite les familles de celles et ceux qui ont été agressés, blessés ou tués.
« Nétanyahou a fait davantage que s’accommoder de la prise de contrôle du Hamas sur Gaza, il a pensé pouvoir en tirer avantage pour affaiblir l’Autorité palestinienne et faire reculer toute perspective de création d’un État palestinien. »
« Ce gouvernement, poursuit-elle, que j’ai du mal à nommer comme tel puisqu’il s’agit surtout d’une assemblée de voyous, veut ériger la vengeance en stratégie nationale. C’est catastrophique. J’entendais pourtant le père d’une jeune femme assassinée par le Hamas dire récemment : “J’ai perdu ma fille mais pas mon cerveau.” On a besoin de trouver un accord avec notre ennemi, même si celui-ci est horrible, parce qu’on sait que les bombardements ne changeront rien. Plus on tue de terroristes comme cela, plus il y aura de terroristes pour les remplacer. On a bien vu ce qu’ont donné les guerres de “changement de régime” menées par les États-Unis. »
Cette vidéo a été diffusée par différentes chaînes de télévision dans le monde. Nous n’avons pas été en mesure de vérifier son authenticité. Nous avons décidé de la publier quand même, en avertissant nos lecteurs. Malheureusement, dans chaque guerre, la vérité est l’une des victimes. Il faut être très prudent : la propagande est toujours à l’affût pour tuer la vérité.
Ses relations avec les Palestinien·nes ont-elles été transformées par la séquence sanglante inaugurée par le Hamas le 7 octobre ? « On continue d’échanger beaucoup et cela se passe bien, assure Heled Varda. Je ne peux même pas compter le nombre de messages compatissants que j’ai reçus depuis les massacres du Hamas. Et je leur réponds que je suis contre les bombardements sur Gaza. »
Cependant, il semble que, pour le dire comme Arielle Angel, rédactrice en chef de la revue Jewish Currents, dans un texte fort traduit dans le Club de Mediapart, « les relations déjà complexes et fragiles entre les militant·es palestinien·nes et juif·ves de gauche – ainsi qu’entre courants au sein de ces deux entités – sont ébranlées par le fait que nous peinons à trouver une signification commune aux images qui nous parviennent via nos écrans. Des ami·es et des collègues de tous bords sont blessés par les réactions publiques des un·es et des autres, ou par leur silence ».
J’ai plusieurs amis de gauche qui ont toujours cru
qu’une paix juste était la seule solution et qui pensent maintenant
qu’il faut que Gaza paie le prix du sang.
Tomer Avital, militant pacifiste
Même si beaucoup préfèrent les mettre en sourdine, le choc du 7 octobre a été tel que l’on reconnaît que des fractures se sont ouvertes. « J’ai plusieurs amis de gauche qui ont toujours cru qu’une paix juste était la seule solution et qui pensent maintenant qu’il faut que Gaza paie le prix du sang. Cela m’attriste énormément », dit Tomer Avital, un journaliste indépendant spécialisé dans les affaires de corruption qui a été de toutes les manifestations contre la réforme de la Cour suprême mise en œuvre par le gouvernement actuel.
Tomer a 40 ans, deux jeunes enfants et s’inquiète pour leur avenir. « Même si l’armée conquiert Gaza, qu’est-ce qu’on fait après ? On attend qu’un nouveau carnage se reproduise dans cinq ans ou dans cinquante ans ? On a vu que toute notre technologie ne pouvait pas nous protéger. La seule manière de nous défendre vraiment, c’est en faisant la paix. Ce conflit est d’abord territorial avant d’être religieux. On doit pouvoir trouver un accord pour assurer la sécurité de nos deux peuples. »
Tomer Avital avait prévu de partir l’an prochain faire un tour du monde de deux ou trois ans avec sa femme et ses enfants.« Mais on s’est mis d’accord entre nous pour attendre. On ne peut pas laisser le pays dans cet état, on risquerait de ne plus avoir d’endroit où rentrer. Je suis extrêmement inquiet que ce soit Nétanyahou qui soit aux commandes dans un moment aussi charnière que celui que nous vivons. Mais je me rappelle aussi que, cinq ans seulement après la guerre du Kippour de 1973, il y a eu les accords de Camp David. Il faut en terminer une fois pour toutes avec ce conflit. Cela ne se fera pas sans sacrifices, notamment le démantèlement des colonies, mais c’est la seule solution de long terme si je ne veux pas que, dans dix-huit ans, mes enfants se retrouvent à faire une nouvelle guerre avec Gaza. »
Toutes celles et ceux qui restent pacifiques dans un pays en guerre se retrouvent sur l’idée qu’une solution politique est possible, parce qu’elle seule permet de penser un avenir qui ne soit pas aussi sombre que le présent.
« La seule façon d’affaiblir le Hamas, juge ainsi Avner Gvaryahou, c’est de trouver un débouché politique différent de tout ce qui existe aujourd’hui. Nous devons dès maintenant penser au jour d’après. Ce sont les destins du peuple palestinien comme du peuple israélien qui sont aujourd’hui en jeu. »
Nos alliés, s’ils étaient de vrais amis,
pourraient obliger Israël
à mettre fin à l’occupation.
Guy Hirschfeld, fondateur de Looking Occupation in the Eye
Pour Michel Warchawski, « quand il y a de la volonté politique, tout est possible, même dans le bon sens ». « Mais on sent que la société reste clivée entre celles et ceux qui sont prêts à un compromis et les jusqu’au-boutistes. Même si je partage le sentiment de plus en plus répandu que c’est bientôt la fin du régime Nétanyahou, qui était déjà détesté par toute une partie du pays pour ses attaques contre la démocratie et qui est maintenant critiqué par ceux qui le jugent inapte sur les questions sécuritaires et militaires ».
Guy Hirschfeld voit toutefois deux conditions nécessaires au renversement de la situation actuelle et à l’avènement d’une solution politique. « [D’abord], nos alliés, s’ils étaient de vrais amis, pourraient obliger Israël à mettre fin à l’occupation. Nous ne sommes pas vraiment un pays indépendant. Sans le soutien de l’Occident, qu’il soit militaire, financier ou appuyé sur le veto de l’ONU, Israël n’existerait pas. En tant que citoyen israélien, j’exige désormais que vous nous obligiez à nous mettre autour de la table de négociation et que vous nous empêchiez de commettre de nouveaux massacres à Gaza. »
Ensuite, « il faudra une guerre civile ». Quoi ? La guerre avec le Hamas ne suffit pas ? Il s’agit d’une métaphore pour parler de la mobilisation des forces de gauche pour les prochaines élections ? « Non, je suis sérieux, poursuit Guy Hirschfeld. Nous sommes face à des suprémacistes juifs qui ont fait de la domination raciale leur objectif. Nous devrons nous battre si nous voulons qu’ils quittent les territoires occupés. Pour faire dérailler le processus d’Oslo, qui est le moment où nous étions le plus proche d’une paix, ils n’ont pas hésité à tuer le premier ministre. Aujourd’hui, ces gens sont au pouvoir. Nous devons leur reprendre le pouvoir, et je ne pense pas que cela puisse se faire uniquement par des moyens pacifiques. »
Joseph Confavreux*
*Journaliste à France Culture entre 2000 et 2011, il a rejoint Mediapart en mai 2011. Joseph Confavreux est membre du comité de rédaction de la revue Vacarme, a codirigé le livre La France invisible (La Découverte, 2006) et a publié deux autres ouvrages, Egypte :histoire, société, culture (La Découverte, 2009), et Passés à l’ennemi, des rangs de l’armée française aux maquis Viet-Minh (Tallandier, 2014). Il est aussi co-rédacteur en chef de la Revue du Crieur.
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