Dal Centrafrica scappano in Niger, ma sono solo lacrime

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Era il suo complenno e non sapeva nemmeno a chi dirlo. Meno male che Pelagie l’ha accolta a casa sua. Tra una figlia e l’altra solo perché scappano dallo stesso paese e soprattutto dalla stessa guerra. 
Il Centrafrica è reso povero dalle sue ricchezze e ricco della sua povertà. Una serie di presidenti criminali e le consuete complicità internazionali per rubarne le risorse. Miscele pericolose che hanno fatto sì che Jennifer trovasse suo marito e suo padre uccisi dai liberatori del Seleka. Alcuni anni fa era accaduto lo stesso al marito di Pelagie. Ucciso sotto i suoi occhi di sposa.  Hanno preso Bangui, la capitale del Centrafrica e regolato conti lasciati in sospeso.

Suo marito era un militare e si è trovato al momento e dalla parte sbagliata del sistema. Jennifer era uscita col figlio di tre anni fasciato al dorso come fanno le madri africane dappertutto. Dice che suo figlio non ha visto nulla. E poi finge di crederlo. Sono fuggiti insieme con altre migliaia di persone terrorizzate dagli spari.

Jennifer non sa dove si trovano le 4 figlie che si trovavano a casa durante l’attacco. In fondo non era che una tranquilla domenica di marzo dove quelli che possono vanno a messa. Solo che i guerriglieri sono entrati nel quartiere e la capitale ha cominciato a contare i morti. Con le sue figlie c’erano anche un fratello e la sorella. Jennifer crede e spera che le figlie si trovino al sicuro con loro da qualche parte. E quando la Croce Rossa Internazionale ha chiesto i loro nomi ha cominciato a piangere. I nomi tornavano lentamente allo sguardo e agli occhi abbassati come per ricordarne i volti.

Jennifer ha pianto a lungo tra un nome e l’altro. Piangeva col silenzio e l’attenzione di correggere il funzionario quando pronunciava male i nomi che lei suggeriva. Quattro nomi circondati di lacrime e di lacrime assediate da nomi. Jennifer è fuggita col figlio piccolo sul dorso e ha attraversato il Cameroun e poi la Nigeria. Non sa perché si trova a Niamey da una connazionale per il terzo compleanno del figlio che ancora le rimane.

Le guerre sono guerre e non hanno giustificazioni. Le guerre sono i saccheggi e i figli che si perdono. Le donne diventano strumento di occupazione e parte del bottino del vincitore. I vescovi di Bangui lo hanno scritto e Jennifer lo ha vissuto. No all’impunità e la domanda di riparazioni da parte delle autorità. Troppo tardi per Jennifer e per chi come lei ha perduto coloro che le erano stati affidati. Tardi per chi non incontra nessuno sul cammino e non sa dove posare il capo. Non esistono le riparazioni. Solo le lacrime che scavano e scrivono sull’unico libro che racconta.

Le madri sono biblioteche che camminano e incontrano parole abbandonate lungo la strada di ritorno. I vescovi chiedono che si fermino i saccheggi ma è tardi per Jennifer. I vescovi scrivono che i centrafricani sono ormai considerati come animali da abbattere. Dicono di ragazze e donne che si sono suicidate dopo essere state violentate. Casa e chiese e scuole prese come ostaggio della violenza che discrimina le appartenenze. I vescovi scrivono al presidente fantoccio che si è autoproclamato capo dello stato di un paese inesistente. Tardi lo hanno scritto quando il Paese si stava dissolvendo nell’incuria dello sfruttamento delle risorse. Jennifer ha chiesto una bibbia per leggersi.

Arriva senza fiato di mattina dopo aver passato la notte al parcheggio dei camion. Tita è nata nel 1986 a Buchanan in Liberia da cui è scappata a causa della guerra del 2003. La Guinea, la Costa d’Avorio, il Ghana, la Nigeria e infine il Sudan. Deportata e poi espulsa con suo marito per mancanza di documenti di un viaggio senza ritorno. Il deserto li attende e il figlio Divine celebra il compleanno del settimo mese nel deserto. Ha sete e suo padre si allontana per cercare l’acqua che potrebbe salvarlo. Il camion nel frattempo parte dopo averlo atteso inutilmente. Lui scompare tra la sabbia e una sorgente ancora da scoprire. Tita comincia a piangere quando racconta di suo figlio Divine che muore tra le sue braccia senza la festa. Piange con le lacrime che aveva custodite nel deserto per portarle a casa. Piange come una madre che ricorda le lacrime di sua madre  quando partiva. Le sue ora scendono come fosse la sorgente che cercava suo marito quando si era allontanato nel deserto.

Mauro Armanino
Niamey, maggio 2013

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