“Il Paese delle persone integre”: gli africani costretti a migrare dal Burkina Faso in un film presentato alla mostra di Venezia

Presentato alla mostra di Venezia un docu-film che fa molto riflettere, avvincente per la solidità espressiva e l’energia che trasmette

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Speciale per Africa Express e per La voce di New York
Giuseppe Sacchi
3 settembre 2022

Da tempo la coscienza storica si forma attraverso canali linguistici eterogenei, ma tra questi è indubbio che è il documentario cinematografico che sta sempre più conquistando, meritatamente, una posizione fondamentale, permettendo così il superamento di un sapere che sino alla metà del secolo scorso era legato soprattutto all’accumulazione di opere scritte.

Ricordando che L’uscita dalle officine Lumière (La Sortie de l’usine Lumière, 1895) non ha segnato solo l’avvento ufficiale del cinematografo, ma anche quello del documentario – quindi primo genere della storia della Settima Arte -, bisogna ammettere che fino a poche decadi fa il documentario era considerato da molti un prodotto di serie B, difficile da piazzare, ed occupava uno spazio davvero marginale nella programmazione delle sale o nei palinsesti televisivi, pur avendo impegnato la creatività di alcuni fra i massimi registi di fiction del ‘900 (tra cui Roberto Rossellini, Ermanno Olmi, Werner Herzog, Alain Resnais, Wim Wenders, Orson Welles, Agnès Varda).

Il musicista reggae Sams’k Le Jah

Recentemente però, anche grazie ai progressi della tecnologia che hanno molto semplificato il processo produttivo, il documentario sta avendo la sua rivincita, un nuovo e dinamico sviluppo, grazie anche ad una più acuta attenzione di operatori culturali, studiosi e registi.

Lo testimonia anche il fatto che questo mezzo comunicativo sta conquistando sempre più attenzione e spazio nei vari festival, nazionali ed internazionali.

E’ così anche alla Mostra del cinema Venezia 79, in corso nella laguna, dove verrà proiettato, nella sezione Giornate degli Autori-Isola Edipo, Il Paese delle persone integre del regista ligure Christian Carmosino Mereu (Kobarid, L’ora d’amore, La lunga strada gialla, A piedi nudi) un docu-film che avvince per la freschezza e la solidità espressiva, l’energia che trasmette, scevro da moralismo o partigianeria, animato solo dal voler “aprire una modesta finestra umana e politica” sull’ex colonia francese Alto Volta, ora Burkina Faso.

In lingua burkinabé il nome significa proprio “Il Paese delle persone integre”: a cambiarglielo fu Thomas Sankara, il “Che Guevara africano”, leader carismatico dell’Africa occidentale sub-sahariana, che dal 1983 fu Primo Ministro prima di essere assassinato nel 1987 dal suo vice, e “amico”, Blaise Compaoré: con il cambio del nome, nel 1984, Sankara intendeva infondere nella popolazione un sentimento di identità.

E veniamo al docu-film.

È il 27 ottobre 2014, la città di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso è teatro di manifestazioni di massa contro Compaoré e il suo tentativo di cambiare la Costituzione, per rimanere così in carica altri quindici anni: la protesta si trasforma in un’insurrezione di sei giorni, non armata, del popolo burkinabé che caccia il dittatore e resiste ad un successivo tentativo di colpo di stato.

Il regista del film, che si trovava in Burkina Faso per girare un documentario istituzionale di altro tipo, decide di seguire invece i sei giorni della rivolta (il tutto in bianco e nero) e di ritornare poi nel paese per tastare gli umori popolari prima e dopo il voto (la scelta qui è del colore, a sottolineare che il clima è cambiato): una scelta, quella di Christian Carmosino Mereu che permette allo spettatore l’occasione unica, rara, di seguire una rivoluzione in prima linea fatta a piedi e mani nude.

In questa fotografia e in quella che segue un fotogramma del film

Nell’ottobre del 2015 il Paese vota liberamente per la prima volta nella sua storia, ma a questa rivoluzione non segue anche un cambiamento del regime di sfruttamento economico del Paese da parte delle compagnie straniere.

Il film segue questo processo nell’arco temporale di cinque anni attraverso la vita quotidiana, fatta di resistenza e lotta, di quattro burkinabé: Sams’k Le Jah, un musicista reggae molto amato e rivoluzionario; Yiyé Constant Bazié, un ingegnere candidato alle elezioni e guida-interprete del regista; Dieudonné Tagnan (Ghost), un minatore che vorrebbe costruire un suo studio fonico ma ora disoccupato per via del suo impegno politico; Assanata Ouedraogo, una madre povera in una famiglia numerosa della capitale Ouagadougou e che sta studiando farmacia nella speranza di trovare un lavoro.

Tutti accomunati da una speranza di cambiamenti a favore dei bisogni del popolo, cosa che tanto fece Sankara, in soli quattro anni, prima di essere assassinato.

Oggi, purtroppo, la debolezza del governo sta favorendo l’avanzamento di Al Qaeda e ISIS, che negli ultimi mesi hanno messo sotto attacco buona parte del Paese causando migliaia di vittime e centinaia di migliaia di sfollati.

Molto apprezzata la scelta registica di passare, quasi in una dissolvenza, dal bianco e nero al colore, dalla sua narrazione in prima persona ad un coro di voci burkinabé, evitando stereotipi o “immagini ad effetto”.

Il paese delle persone integre è un docu-film diretto, semplice, ma molto profondo per chi vuole capire un po’ di più il mondo in cui viviamo.

Conoscere la storia recente del Burkina Faso è utile per molti aspetti, tra cui quello dell’umanamente necessaria riflessione sul perché dei tanti flussi migratori dai Paesi africani e su uno sfruttamento a senso unico delle ricchezze di quei popoli perché l’Occidente ha bisogno di tenerli poveri.

“Muoiono le persone ma non le idee – disse Thomas Sankara -, a condizione di saperne ascoltare il grido, e di non dimenticare che il principale nemico dell’Africa e della sua rivoluzione sono gli africani stessi. Il dominio dipende dai dominati”.

Abbiamo chiesto al regista Christian Carmosino Mereu: In che modo anche noi, cittadini occidentali, abbiamo responsabilità dirette in questo perverso meccanismo che porta allo sfruttamento e alla sottomissione del continente africano?

“La risposta è nel film, ma forse una cosa la aggiungerei, perché a volte le questioni sono evidenti, palesi, solo a quella parte di popolazione che non si accontenta della narrazione mainstream e riesce così ad intravedere le ingiustizie alla base del sistema capitalisticamente globalizzato”.

“Credo basti in teoria poco per accendere la possibilità di un cambiamento: basterebbe alzare lo sguardo e provare a cambiare la narrazione. I primi a doverlo fare siamo noi che abbiamo accesso ai mezzi di comunicazione, anche se si è solo una piccola nicchia, una riserva indiana di pubblico, perché cambiare lo sguardo è già di per sé un atto politico”.

“C’è un’Africa che lotta e che non vorrebbe affatto migrare: raccontare quell’Africa per me è l’inizio di questa rivoluzione dello sguardo. Io ho provato a farlo con il cinema, nel mio piccolo, spero di essere accompagnato da tanti altri”.

Giuseppe Sacchi
arbitro46@yahoo.it

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