Massimo A. Alberizzi
1° maggio 2014
Seicento ottantatré condanne a morte proposte da un giudice egiziano contro membri dei Fratelli Musulmani accusati di terrorismo. Avete letto bene e lo riscrivo in cifre: 683. Un numero enorme che ha fatto indignare la comunità internazionale, sbalordita dalla notizia. L’accusa, per tutti, aver provocato nella provincia di Al-Minya, un’ondata di violenza culminata con l’omicidio e di un poliziotto.
Lo stesso giudice ha anche inviato la sua proposta contro i 683 imputati, tra cui Mohamed Badie, la Guida suprema dei Fratelli Musulmani al Gran Mufti d’Egitto – che secondo il diritto egiziano deve esaminare tutte le condanne a morte. I 683 (scusate se ripeto sempre il numero!) sono stati accusati di omicidio, di tentato omicidio, di aver dato alle fiamme la stazione di polizia di Adwa, di appartenere a un gruppo bandito e di aver partecipato a un raduno di più di cinque persone con l’intenzione di organizzare violenze e brutalità.
Alla notizia della draconiana decisione sono scattate le proteste dei familiari dei condannati e delle organizzazioni per i diritti umani.
Ma in Egitto parecchia gente ha dichiarato di essere favorevole alla sentenza dei magistrati perché “il terrorismo va schiacciato”. Numerosi ospiti dei talk-show televisivi hanno dato ragione ai magistrati; occorre però tenere presente che oggi in Egitto non è facile e sicuro andare in televisione e sostenere a viso aperto “più che giustizia si tratta di vedetta”.
Certo che una decisione di questo tipo, oltretutto senza che gli accusati avessero la possibilità di difendersi e, durante il breve processo, non fossero stati sentiti testimoni, lascia pietrificati. “Giusta, obbiettiva e normale”, l’ha definita il governatore di Al Minya. Mentre il candidato presidenziale Hamdin Sabahi ha chiesto ai giudici in un’intervista a un giornale privato di correggere “una sentenza che getta una pessima immagine sull’Egitto”.
Ma le protesta è scoppiata violenta (anche se solo verbalmente) sui social media. Blogger famosi e seguiti hanno parlato di decisione “scandalosa”. Uno dei giornalisti più conosciuti, Ala Sadiq ha twittato a chi lo segue: “Stalin, Mussolini, Hitler, Nasser, Assad, Saddam e Gheddafi non hanno fatto al loro popolo quello che sta facendo il candidato presidente Al-Sisi agli egiziani”.
E la femminista Muna Al Tahawi (certamente non sospettabile di simpatie islamiche) scrive: “La Corte egiziana sta commettendo gravi ingiustizie”. Sarcastico un altro attivista Jamal: “L’Egitto corre verso in futuro riducendo la sua popolazione a furia di sentenze di morte”. E H. A. Hellyer: “Qualcuno deve dire a quel giudice che ha già battuto il record di sentenze di morte, non c’è bisogno che ne decreti altre”. (Someone needs to tell this judge he already broke the world record for death sentences. He doesn’t need to do it again.)
Profondamente indignata Amnesty International che in un comunicato intitolato: “Egitto, processo iniquo: le condanne a morte si fanno beffe della giustizia”, sostiene di aver “avvertito di gravi vizi nel sistema di giustizia penale in Egitto dopo che un tribunale di El Minya, nell’Alto Egitto, ha confermato le condanne a morte per 37 persone, ha imposto l’ergastolo a 491 in un caso e stabilito condanne a morte per 683 in un altro.”
“Le sentenze – continua il documento citando Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International, che chiede la revisione del processo – ancora una volta rivelano come il sistema di giustizia penale in Egitto sia diventato arbitrario e discriminatorio. La corte ha mostrato totale disprezzo per i più elementari principi dell’equo processo e ha completamente distrutto la propria credibilità. E’ tempo che le autorità egiziane siano oneste e riconoscano che l’attuale sistema non è equo, né indipendente, né imparziale. La magistratura egiziana rischia di diventare solo un’altra parte della macchina repressiva delle autorita’, che emette condanne a morte o all’ergastolo su scala industriale.”
Le autorità egiziane tengono in galera quattro giornalisti di Al Jazeera, Peter Greste, Mohamed Fahmy e Baher Mohamed e Abdullah Al-Shami, arrestati come fiancheggiatori dei terroristi. Ma fanno il loro mestiere e il giornalismo non è un crimine.
Massimo A. Alberizzi
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