Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
23 febbraio 2020
“Giuro di essere fedele alla Repubblica del Sud Sudan”, sono le parole pronunciate da Riek Machar ieri mattina nella capitale Juba, durante la cerimonia di investitura come primo vice-presidente. E alla fine della celebrazione ha aggiunto:”Vi assicuro che lavoreremo insieme per mettere fine alle sofferenze del popolo sud sudanese”.
Mentre il presidente Salva Kiir ha dichiarato ufficialmente conclusa la guerra, precisando che ora la pace è un fatto irreversibile: “Dobbiamo perdonarci a vicenda e estendo questo appello alle popolazioni di etnia dinka e nuer” (due gruppi etnici rivali n.d.r.).
La comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti e l’ONU avevano messo Kiir e Machar sotto pressione e fissato il termine ultimo per la formazione del nuovo governo di coalizione della durata di 3 anni per il 22 febbraio, in caso contrario sarebbero scattate pesantissime sanzioni.
Secondo l’ultimo trattato di pace, firmato nell’agosto del 2018, mai rispettato, il nuovo esecutivo sarebbe dovuto essere formato a maggio dello scorso anno, poi è stato rinviato a novembre, per concretizzarsi finalmente con la cerimonia di ieri. Già a novembre il governo di Washington, tra i maggiori sostenitori del Sud Sudan, aveva espresso il proprio disappunto per l’ultimo rinvio e aveva minacciato di rivedere le proprie relazioni con il governo di Juba.
Una settimana fa Kiir ha ridotto finalmente il numero degli stati, da 32 a 10, come al momento dell’indipendenza, aggiungendo tre aree amministrative, Pibor, Ruweng and Abyei. L’opposizione ha approvato tale decisione, ma chiede maggiori chiarimenti sul futuro di Ruweng, territorio particolarmente ricco di greggio.
Venerdì è stato sciolto il vecchio governo per dare più spazio all’ opposizione. Il nuovo esecutivo sarà composto da 35 membri e ieri, insieme a Machar sono stati insediati altre tre vice-presidenti, tra loro Rebecca Garang, la vedova di John Garang de Mabior, capo della guerriglia durante la guerra di indipendenza e fondatore e leader dell’Esercito di Liberazione del Popolo di Sudan (SPLA). In seguito, dopo l’accordo di pace (Comprehensive Peace Agreement), siglato alla fine del 2004, divenne primo vice-presidente del governo di Omar al-Bashir per poche settimane nel luglio 2005. Morì in un incidente aereo mentre tornava da un incontro segreto con Yoweri Museveni, presidente dell’Uganda, suo amico e vecchio alleato. Sia il governo di Khartoum che SPLA dichiararono che si fosse trattato di una disgrazia, dovuta al cattivo tempo, ma c’è chi ha messo in dubbio questa versione.
Machar, già vice-presidente, è poi stato capo ribelle durante la sanguinosa guerra civile che ha messo in ginocchio il più giovane Stato della Terra dal 2013. Il conflitto interno è costato la vita a oltre 400mila persone che in milioni hanno dovuto lasciare le proprie case, ha portato parte della popolazione allo stremo, alla fame. Ci sono state violenze in ogni dove, lo stupro era una delle armi preferite. I bambini soldato hanno perso la loro infanzia, la loro adolescenza.
Ora bisogna guardare avanti, costruire la pace, il futuro. Negli ultimi mesi sono entrate in campo molte forze internazionali per ristabilire un dialogo costruttivo tra le parti, come la Chiesa cattolica con la mediazione di Sant’Egidio, gli Stati Uniti, l’ONU e i governi dei Paesi confinanti e altri. Molti problemi rimangono ancora irrisolti, primi tra tutti l’unificazione degli eserciti e varie questioni di sicurezza. Occorre poi ristabilire i diritti umani e quant’altro.
Gli scontri tra le forze governative e quelle degli insorti fedeli a Machar, sono cominciati quando il presidente Salva Kiir Mayardit, di etnia dinka, ha accusato al suo vice, un nuer, di aver complottato contro di lui, tentando un colpo di Stato. I primi combattimenti sono scoppiati il 15 dicembre 2013 nelle strade di Juba, ma ben presto hanno raggiunto anche Bor e Bentiu. Vecchi rancori politici ed etnici mai risolti, non hanno fatto che alimentare il sanguinoso conflitto, che si spera, sia finalmente terminato. Solamente una decina di giorni fa da un giovane armato fino ai denti ha ammazzato un altro operatore umanitario che lavorava per una ONG a Pibor (Jonglei State) . Durante la guerra civile hanno perso la vita 116 operatori umanitari per lo più sud sudanesi.
Cornelia I. Toelgyes
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