Massimo A. Alberizzi e Amedeo Ricucci
28 Marzo 2014
Coltivare il dubbio è il sale del lavoro giornalistico. Perché, tra l’altro, lo differenzia dall’approccio dei comuni cittadini; i quali, troppo spesso, non hanno gli strumenti per decodificare la realtà – soprattutto quando è torbida – e sono indifesi di fronte ai persuasori occulti e ai trucchi della propaganda. Dubitare però dovrebbe servire a capire meglio e indagare di più. Le certezze e le indagini dirette in una sola direzione, quando ci sono altri indizi che portano in altre direzioni, non è umanamente saggio e, sul piano giornalistico, profondamente sbagliato. Quando si indaga e quando non ci sono risultati non si può pensare di avere in tasca la verità.
E’ questo che rimproveriamo ai colleghi che si sono cimentati in varie inchieste sull’omicidio a Mogadiscio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin: il fatto cioè di aver alimentato speculazioni non suffragate dai fatti, dando per verità scontate ciò che è invece ancora tutto da dimostrare.
Che la Somalia di quegli anni fosse infatti il terminale dei traffici più svariati – armi, rifiuti tossici e affari loschi della cooperazione italiana – non vuol dire affatto che la morte di Ilaria e Miran possa e debba essere attribuita a questi traffici, a meno che non si stabilisca con ragionevole certezza che
1) i nostri colleghi stessero indagando proprio su questo
2) che siano stati i responsabili di tali traffici a decretarne la morte.
Queste due condizioni – ci pare – non sono affatto chiarite nelle varie inchieste che si sono succedute negli anni e che, guarda caso, hanno puntato su “piste” diverse: sulla mala-cooperazione, sul traffico d’armi e sul traffico di rifiuti tossici, per arrivare infine a mettere tutto nello stesso calderone, senza che si possa più distinguere una “pista” dall’altra.
Ancora più sconcertante ci pare il fatto che, nonostante le inchieste già portate a termine, e con grande enfasi sui risultati raggiunti, si continui ad alimentare “la ricerca della verità” e a chiedere che si intervenga in alto loco per dissipare la “coltre di misteri” che ancora circonderebbe quel maledetto 20 marzo del 1994.
Delle due l’una, infatti: o sono valide quelle inchieste e non c’è più nessun mistero da chiarire – perché risultano acclarati i nessi causali che legano l’omicidio di Ilaria e Miran ai traffici vari in corso nella Somalia di quegli anni – oppure quelle inchieste sono solo supposizioni non ancora suffragate dai fatti e allora vanno considerate come tali e non come verità assolute.
Ovviamente noi siamo favorevoli a togliere il segreto dai documenti che riguardano l’omicidio dei due colleghi, e ringraziamo per questo Laura Boldrini, ma non perché vogliamo dimostrare una tesi, piuttosto perché riteniamo giusto che si conosca la verità: qualunque essa sia. E’ così che si onora la memoria dei colleghi.
Il dubbio, questo orrendo dubbio, sulla loro morte non è stato ancora sciolto. Anzi, nel ventennale dell’omicidio si danno per certe troppe supposizioni e al tempo stesso si alimentano ad arte troppi misteri che tali non sono. Francamente, attorno a questa tragica vicenda – che ci addolora tutti – si è costruita una “narrativa” intrisa di retorica nelle quale non ci riconosciamo. Ilaria e Miran – ne siamo certi – non si sentivano eroi. E non vorrebbero oggi essere trattati da eroi.
Massimo A. Alberizzi massimo.alberizzi@gmail.com @malberizzi
Amedeo Ricucci amedeoricucci@tiscali.it @amedeoricucci
Sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin su Africa ExPress abbiamo anche pubblicato: