Amedeo Ricucci
23 Marzo 2014
Chissà perché, quando in Italia muore un giornalista, dev’esserci sotto, sempre, un mistero da scoprire. E ‘ come se la morte sul lavoro, per noi, non possa essere un evento accidentale o una disgrazia, ma debba essere collegata per forza ad un mistero, da svelare.
E passi che a pensarlo siano i parenti, per i quali una morte nobile è meno dolorosa e più facile da accettare. Diventano invece insopportabili i teoremi investigativi che inevitabilmente fanno da corollario a questa morte, spacciando spesso per verità quelle che sono solo delle supposizioni, in quanto basate non sui fatti ma sull’assunto aprioristico che dietro i fatti c’è sempre qualcosa d’altro. Vero è che il nostro è un Paese che ci ha abituato alle trame occulte e ai segreti di stato, ma interrogarsi è una cosa e fare congetture un’altra.
Prendiamo il caso di Ilaria Alpi, la sfortunata collega del TG3 uccisa a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. In questo blog non ne ho mai parlato ma c’ero anch’io con lei e Miran Hrovatin sull’Hercules 130 dell’Aeronautica Militare che ci sbarcò in Somalia il 13 marzo.
E con noi c’erano altri giornalisti: Raffaele Ciriello, Marina Rini, Gianandrea Gaiani, Marcello Ugolini e Mauro Perna di Radio RAI. A Mogadiscio, invece, nel compound dei militari italiani della missione Ibis oppure ospiti in case private c’erano già Rino Cervone (Tg1), Romolo Paradisi e Carmen Lasorella (Tg2), Davide De Michelis della Radio Svizzera Italiana, Giovanni Porzio di Panorama) e Gabriella Simoni del Tg5.
Un gruppo ben nutrito, direi, eppure nessuno di questi giornalisti ha mai firmato un’inchiesta sulla morte di Ilaria e Miran, limitandosi a parlarne solo davanti al magistrato oppure in sede di Commissione d’Inchiesta – ce ne sono state diverse – senza mai avanzare congetture di sorta. Perché? Perché i fatti non le autorizzavano, dico io. Altrimenti, saremmo stati noi ad indagare per primi, noi che con Ilaria e Miran avevamo vissuto quegli ultimi giorni, noi che probabilmente eravamo più informati di altri su quanto stava succedendo in Somalia in quei giorni.
I fatti, d’altronde, erano chiari a tutti. Già al nostro arrivo a Mogadiscio i militari italiani ci avevano avvertito deirumor insistenti su un possibile attacco ad obiettivi italiani – giornalisti compresi – e ci avevano perciò invitati ad alloggiare all’interno del loro compound. E il 19 marzo, fattosi il pericolo più concreto, io e Raffaele Ciriello – che avevamo preferito sistemarci per qualche giorno in città, ospiti di cooperanti – fummo evacuati sulla nave Zeffiro e facemmo ritorno in Italia assieme a Marcello Ugolini e Mauro Perna del giornale radio RAI.
Ilaria e Miran li vedemmo per l’ultima volta il 15 o 16 marzo – non ricordo bene – in occasione di una visita a Merca assieme ai militari italiani. E fu in quella occasione che Ilaria mi disse di voler andare a Bosaso, sia perché laggiù era scoppiata una epidemia di colera, sia perché quella destinazione era l’unica disponibile via aerea. Tutte queste cose le scrissi sul settimanale Avvenimenti quando, giunto in Italia, venni accolto dalla notizia della morte di Ilaria e Miran.
E ricordo anche che, parlando della loro tragica morte al telefono con Raffaele Ciriello e con altri colleghi che erano stati con me in quel viaggio sfortunato, nessuno avanzò strane congetture su quanto era capitato, addebitandolo solo alla follia dei somali e alla sfortuna, che in questo mestiere è sempre in agguato.
Le congetture sono arrivate dopo, anche molti anni dopo, ad opera di colleghi che sono bravissimi ma che sono partiti dall’assunto che quella di Ilaria e di Miran non poteva essere stata una “punizione” – per colpire gli italiani – ma doveva nascondere chissà quale altro mistero. Si è parlato prima di mala cooperazione, poi di traffico d’armi, infine di rifiuti tossici, senza però mai apportare delle prove a sostegno che non fossero congetture.
A questo quadro sono state associate alcune apparenti stranezze – la sparizione dei taccuini di Ilaria ed altre – che a mio modesto avviso vanno messo in conto fra le cialtronerie che purtroppo caratterizzano molte inchieste italiane e non sono il segno di nessun piano prestabilito o complotto che dir si voglia.
Bene perciò ha fatto Massimo Alberizzi, che di Ilaria era amico e che della Somalia è il conoscitore più attendibile, a scrivere sul suo blog qualche giorno che la ricerca della verità è stata “ritardata” dalle troppe congetture misteriose. “Chi ha voluto con testardaggine perseguire la strada dei traffici illeciti, armi, rifiuti tossici e mala-cooperazione, senza guardare altrove – scrive Massimo – si è assunto la grave responsabilità di aver impedito che fossero condotte indagini in altre direzioni. Per accertare altre verità, per verificare altre tesi”. La sua è una denuncia coraggiosa e importante, che condivido in pieno e che dice quello che in tanti pensiamo da tempo senza aver mai avuto la possibilità di dirlo.
Amedeo Ricucci
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