Giuseppe Cassini
Roma, marzo 2019
AVVERTENZA
Per 25 anni il giornalismo italiano ha rincorso senza prove una verità stabilita a priori. Un sensazionalismo insensato che ha depistato la ricerca della verità e che Ilaria e Miran sarebbero stati i primi a ripudiare.
Africa ExPress
L’ECATOMBE DI GIORNALISTI IN SOMALIA
Ogni anno nel mondo decine di giornalisti vengono incarcerati, feriti o trucidati. Anche per onorarli è nato a Washington il Newseum, uno spettacolare museo dedicato all’informazione. Entrando colpisce una parete tappezzata di foto: sono i ritratti – oltre duemila, visi noti e meno noti – dei caduti sul campo, in gran parte corrispondenti di guerra morti per tragiche fatalità legate alla loro professione. Un’organizzazione americana indipendente, il Committee to Protect Journalists, redige ogni anno la lista dei “martiri dell’informazione” nel mondo: per limitarsi all’ultimo quadriennio erano 73 nel 2015, 50 nel 2016, 47 nel 2017 e 54 nel 2018. Fra i nomi immortalati nel Newseum dovrebbero esserci quelli di 77 giornalisti, teleoperatori e radiocronisti accomunati da un medesimo destino: tutti uccisi in Somalia fra il 1993 e il 2018. Li ha pazientemente elencati il benemerito Committee to Protect Journalists, che non potendo proteggerne la vita protegge almeno la loro memoria:
1993 → Jean-Claude Jumel, Hansi Krauss, Hos Maina, Anthony Macharia, Dan Eldon
1994 → Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Pierre Anceaux
1995 → Marcello Palmisano
2000 → Ahmed Kafi Awale
2003 → Abdullahi Madkeer
2005 → Kate Peyton, Duniya Muhiyadin Nur
2006 → Martin Adler
2007 → Ali Mohammed Omar, Mohammed Abdullahi Khalif, Abshir Ali Gabre, Ahmed Hassan Mahad, Ali Iman Sharmarke, Mahad Ahmed Elmi, Mahad Moallim Kaskey, Bashir Nur Gedi
2008 → Hassan Kafi Hared, Nasteh Dahid Farah
2009 → Hassan Mayow Hassan, Said Tahlil Ahmed, Abdirisak Mohamed Warsame, Nur Muse Hussein, Muktar Mohamed Hirabe, Yasir Mairo, Hassan Haji Hassan, Mohamed Adan Abdulle
2010 → Sheik Nur Mohamed Abkey, Barkhad Awale Adan, Abdullahi Omar Gedi
2011 → Noramfaizul Mohd Nor, Abdisalam Sheik Hassan
2012 → Hassan Osman Abdi, Abukar Hassan Mohamoud, Ali Ahmed Abdi, Mahad Salad Adan, Farhan Jeemis Abdulle, Ahmed Addow Anshur, Abdi Jaylani Malaq, Mohamud Ali Keyre, Yusuf Ali Osman, Zakariye Mohamud Moallim, Abdirahman Yasin Ali, Abdisatar Daher Sabriye, Liban Ali Nur, Hassan Yusuf Absuge, Abdirahman Mohamed Ali, Ahmed Abdullahi Farah, Ahmed Farah Ilyas, Mohamed Mohamud Turyare, Warsame Shire Awale
2013 → Abdihared Osman Aden, Mohamed Ali Nuxurkey, Rahmo Abdulqadir, Mohamed Hassan Habib, Mohamed Ibrahim Rageh, Liban Abdullahi Farah, Mohamed Mohamud
2014 → Yusuf Ahmed Abukar, Abdirizak Ali Abdi, Abdulkadir Mayow, Mohamed Isaq Barre
2015 → Daud Ali Omar, Mustafa Abdi Nur, Hindia Haji Mohamed
2016 → Sagal Salad Osman, Abdelaziz Ali
2017 → Abdullahi Osman Moallim, Ali Nur Siad, Mohamed Ibrahim Gabow
2018 → Abdullahi Mire Hashi, Awil Dihar Salad.
La carneficina (fino al 2018) si chiude con il nome Awil Dihar Salad, notissimo telecronista somalo ucciso dagli shebab il 22 dicembre assieme all’autista e a due guardie del corpo.
Nella lista sono compresi corrispondenti italiani, tedeschi, francesi, inglesi, svizzeri, svedesi, malaysiani, kenyani e tantissimi d’origine somala. Fra loro spicca il nome di Ali Iman Sharmarke, somalo-canadese noto per aver fondato nel 1999 a Mogadiscio la HornAfrik Media, una radio libera assai popolare. Rimase ucciso da una mina esplosa mentre transitava in macchina, l’11 agosto 2007, in una strada della capitale. In sua memoria la vedova e i figli hanno creato a Ottawa la Sharmarke Peace Foundation, che offre borse di studio e assistenza ai compatrioti decisi a tornare in Somalia come liberi giornalisti, nonostante tutto.
Il Committee to Protect Journalists ha anche stilato una lista di Paesi classificati secondo il numero d’inviati uccisi: nella lista la Somalia si piazza al primo posto e l’Afghanistan al secondo. Proprio sul fronte afghano cadde il 19 novembre 2001 Maria Grazia Cutuli. Lavorava per il “Corriere della Sera”, che quella mattina aveva pubblicato un suo articolo, quasi uno scoop: assieme al collega spagnolo del “Mundo”, ucciso con lei, aveva scoperto sulle alture di Jalalabad, in un covo abbandonato da al-Qaeda, un contenitore di sarin, il micidiale gas nervino. I media più disinvolti tentarono di collegare l’assassinio dei due inviati alla loro scoperta del sarin. Furono le famiglie e i due quotidiani a troncare sul nascere ogni illazione fantasmagorica. Maria Grazia Cutuli viene ricordata sobriamente ogni anno con l’assegnazione di un Premio Internazionale di Giornalismo che porta il suo nome, e questo è tutto.
L’ambasciatore Giuseppe Cassini intervistato da una televisione durante il processo a Perugia
Invece, l’omicidio Alpi-Hrovatin si distingue per un fatto singolare, statisticamente quasi unico: il 99% degli italiani è sinceramente convinto che i due giornalisti, a differenza degli altri 75 caduti in Somalia, siano stati uccisi perché stavano scoprendo qualcosa di sgradito a “potenti” mai identificati. Come è possibile che 99 italiani su 100 credano a un complotto e a mandanti inesistenti? Cercava di spiegarlo Massimo Alberizzi, inviato del “Corriere della Sera” e amico personale di Ilaria, sul quotidiano online “Africa ExPress” il 20 marzo 2014, in occasione del 20° anniversario della morte (Ilaria e Miran uccisi vent’anni fa. Le tesi precostituite sul loro omicidio hanno impedito la ricerca della verità): «Eminenti colleghi hanno speso fiumi d’inchiostro per dimostrare che dietro l’assassinio dei due giornalisti della Rai ci fosse un complotto. Per provare questa tesi hanno spesso intrecciato notizie vere con fatti non provati, il ché ha portato a conclusioni avventate presentate come verità. Così se si chiede oggi a qualcuno: “Sai perché sono morti Ilaria e Miran?”, la risposta è una sola: “Perché avevano scoperto traffici illeciti”. Potenza della disinformazione».
Il 12 maggio 2015 CosmoPolisMedia, noto “Giornale online dei Popoli Mediterranei”, recensiva un libro romanzato di Gigliola Alvisi (“Ilaria Alpi: La ragazza che voleva raccontare l’inferno”). Nella recensione, a cura di Sara Cilano, si avallavano le tesi dominanti sui motivi del delitto, ma i lettori venivano informati che «nel frattempo l’ambasciatore Cassini è deceduto, portandosi dietro il segreto sulla morte di Ilaria e Miran». Ora che un miracolo dell’Onnipotente l’ha fatto resuscitare, gli sia consentito di svelare questo “segreto”.
ALLA RICERCA DELLA SOMALIA PERDUTA
Che ci faceva tra il 1996 e il 1998 un diplomatico in Somalia, dove mancava perfino un governo cui presentare le lettere credenziali? Ma appunto perché la Somalia era un buco nero, nel 1996 l’ex-colonizzatore si sentì in dovere di assumere l’iniziativa: costituì una Delegazione Speciale incaricata di avvicinare le fazioni in lotta fra loro, interporre i buoni uffici dell’Italia dove possibile e dare una mano a ricostruire un embrione di Stato partendo dal “basso”, regione per regione. Toccò al sottoscritto essere spedito a Mogadiscio: senza tanti fondi, ma protetto da una scorta somala poderosa e acquartierato in un “fortilizio” su cui svettava la bandiera europea.
Il mio lavoro iniziò a Nairobi, seduto attorno a un tavolo con i capi delle principali cabile somale. A ciascuno chiesi quanta parte della popolazione rappresentavano le rispettive fazioni. Annotai ogni percentuale, feci la somma e la mostrai ai convenuti: all’incirca 150%, ben sopra il 100% imposto dalla logica matematica. Ma nessuno di loro ridusse di un solo punto la propria cifra, a riprova che la matematica può essere un’opinione. Poi andai a visitare i campi profughi in Kenya e a Gibuti, affollati da centinaia di migliaia di somali: quello di Dadaab in Kenya ne conteneva circa 300.000, era il più vasto del mondo. Ogni campo aveva propri rappresentanti scelti fra notabili autorevoli dei clan. Un gruppo di “anziani” si spinse a chiedermi, con naturalezza, che l’Italia tornasse a governare la Somalia “come ai bei tempi”.
La tappa successiva fu il Somaliland, colonia inglese unita nel dopoguerra al resto della Somalia. Bene o male, era l’unica regione stabile. Quando mi presentai al “palazzo presidenziale” di Hargeisa, il portone era sbarrato: ad aprirmi fu il presidente stesso, Muhammad Egal, con le chiavi in mano. Mi descrisse con dovizia di foto i bombardamenti aerei e i massacri inferti tra il 1987 e il 1989 da Siad Barre al Somaliland, abitato in prevalenza dagli Isaaq che si erano ribellati al potere centrale: quasi un genocidio. In seguito, spesi tempo e parole fra Roma e New York affinché gli si riconoscesse un qualche status di autonomia utile a far affluire aiuti e investimenti a un popolo che se li meritava. Fiato sprecato, neppure Londra era disposta a tanto…
Ad est del Somaliland si trova il Puntland, affacciato sull’Oceano Indiano. Mi recai a Bosaso e in altri centri, ricevuto dai notabili locali e da gente che aspirava a smarcarsi da Mogadiscio per avere un po’ di pace. Visitai il porto, ospedali, scuole e altri progetti gestiti da cooperanti italiani e stranieri. Anche il Puntland meritava un riconoscimento quale regione autonoma, in attesa di ricostituire lo Stato centrale. Di nuovo tempo sprecato: i numerosi rapporti inviati in seguito a Roma e a New York staranno ingiallendo in qualche faldone impolverato. Altro fallimento.
Non fu fallimentare, invece, la mediazione avviata sul finire del 1996 a Mogadiscio, che era ancora divisa da una “linea verde” fra il nord controllato dalla fazione di Ali Mahdi e il sud controllato da Hussein Aidid (figlio del generale ucciso in agosto). Mio compito era costruire una base di fiducia tra i due capi rivali che portasse a riunificare la capitale. In un certo senso, esser l’unico diplomatico in Somalia mi favoriva: non c’era nessuno a remare contro nel raggio di mille chilometri. Organizzai partite di calcio interclaniche; sostenni le nascenti associazioni di donne, vittime di diuturne violenze; infine, feci la spola otto volte attraverso la “linea verde”, recando proposte e controproposte alle due fazioni. Il 20 gennaio 1997 fu un giorno felice. I due signori della guerra – per la prima volta disarmati (o quasi) – abbatterono la “linea verde” che bloccava il futuro di Mogadiscio; la varcarono fra due ali di folla, da dove uscì una voce femminile che mi additò gridando: «Tu hai le chiavi della nostra pace, non perderle!».
A parte queste incombenze di natura politica, occorreva assistere le ong impegnate in progetti di cooperazione in campo medico, agronomico, sociale. C’era infine da affrontare gli imprevisti:
- Pesca di frodo e pirateria. Le coste somale, ricche di pesce ma prive di guardacoste, erano diventate terreno di caccia per pescherecci d’ogni dove. I somali della costa, assistendo al saccheggio delle risorse ittiche, si organizzarono in bande dotate di piccole ma ben armate imbarcazioni. Si era agli inizi di quella che diventerà pirateria in grande stile. A me capitò di dover negoziare, senza un soldo, il rilascio di un peschereccio italiano colto sul fatto; ma nel mio caso bastò fornire un carico di medicinali per ottenere il dissequestro.
- Presunte torture. A giugno del 1997 scoppiò lo scandalo delle torture commesse da militari italiani durante la missione Ibis. Vere o presunte che fossero le torture, spuntarono fuori decine di “vittime”. Più in Italia la stampa dedicava le prime pagine alla vicenda, più io ero subissato da chi reclamava giustizia o, meglio, denaro. Furono mesi di timore per la mia incolumità. A Roma si istituì una Commissione presieduta da Ettore Gallo, che non osando venire a Mogadiscio impose alla Farnesina (cioè a me) di trasportare vittime e testimoni in Italia[1].
- Alluvione e colera. A novembre del 1997 arrivò anche l’alluvione. Il Giuba e l’Uedi Scebeli in piena allagarono il sud, causando almeno duemila vittime e lo sfollamento degli abitanti. Atterrando a Chisimaio con un volo dell’Onu carico di aiuti, sotto di me non vedevo più il verdeggiare delle coltivazioni ma solo un immenso acquitrino. Scoppiò anche il colera, e mi sentii impotente accorgendomi che il numero di flebo non sarebbe bastato: molti colerosi stavano morendo solo per mancanza di baxter, acquistabili a Nairobi a meno di un dollaro.
Questa lunga premessa per chiarire che le mansioni di un diplomatico in Somalia erano talmente assorbenti da lasciare ben poco tempo a disposizione per fare l’investigatore: un punto, questo, su cui i media e la Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio mostreranno di avere le idee un po’ confuse.
GLI ULTIMI GIORNI DI ILARIA E MIRAN
Nel 1994 la Somalia era un Paese letteralmente imploso. Neppure i clan erano in grado di sostituirsi allo Stato; anzi, erano i “signori della guerra” a trasformare le città in accampamenti di gente spinta a saccheggiare perfino i fili elettrici e i tondini di cemento armato. Come a Roma alla caduta dell’impero, quando si estraeva piombo e rame dagli antichi monumenti. Per le vie di Mogadiscio si muovevano in bande i morian, miliziani giovanissimi pronti a rapinare e uccidere masticando qat, la droga che rende spavaldi. Si diceva: «Non è vero che i morian si combattono tra loro fino all’ultima cartuccia, quella la risparmiano per venderla al nemico».
Dal 1992 al 1994 l’intervento dell’Onu sotto il nome di “Restore Hope” (così la definiva gli Stati Uniti, ndr) non era riuscito a “restituire la speranza” ai somali; anzi, la speranza l’avevano persa pure gli americani, dopo aver visto precipitare più d’un elicottero Black Hawk e morire 19 dei loro. A marzo del ‘94 i contingenti Onu erano quasi tutti ripartiti. Il mondo aveva rivolto lo sguardo altrove poiché – per dirla con Camus – “les grands malheurs sont monotones”. Solo pochi corrispondenti persistevano a coprire le vicende locali: tra questi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, lei inviata dal Tg3 e lui cameraman di Trieste prestato alla Rai. Ilaria era affascinata dalla Somalia: la perlustrava da brava inviata e manifestava empatia per le sofferenze della popolazione.
Il loro ultimo viaggio inizia il 13 marzo. Sbarcati a Mogadiscio, con Remigio Benni dell’Ansa tentano senza successo di intervistare il principale “signore della guerra”, il generale Aidid. In alternativa chiedono un nullaosta per Chisimaio, ma il volo dell’Onu viene cancellato per motivi di sicurezza. Perciò Ilaria e Miran si rassegnano a seguire i suggerimenti del collega Alberizzi e di Ali Mussa (stringer locale dell’Ansa) di visitare Bosaso, un porto sulla costa nord; e vi atterrano il 16 marzo con un aereo dell’Onu. Che fosse quella una scelta di ripiego e non la meta prefissata, concordano tutti i colleghi, tra cui Amedeo Ricucci: «Ilaria e Miran li vedemmo per l’ultima volta a Merca. Ilaria mi disse che andava a Bosaso, perché era l’unica destinazione disponibile via aerea. Tutto ciò lo scrissi su “Avvenimenti” quando, tornato in Italia, venni accolto dalla notizia della loro morte».
Sotto il regime di Siad Barre, defenestrato nel 1991, la Cooperazione italiana aveva investito e a volte sperperato qualche miliardo di lire. Perciò ogni inviato in Somalia per seguire le vicende belliche cercava di saperne di più anche sulla “mala cooperazione”. Ecco perché a Bosaso Ilaria intervista Abdullah Mussa, un anziano migiurtino chiamato il Bogor (tradotto sbrigativamente con “sultano”), e gli pone domande sull’attività di sette pescherecci d’altura donati dall’Italia e intestati alla Shifco, società italo-somala gestita dall’ingegner. Mugne, un somalo con passaporto italiano. Si mormorava che le navi, oltre a pescare, trasportassero armi. Le pasticciate mezze risposte del Bogor – abituato alla somala a dire e non dire – sono di scarso aiuto. Eppure l’intervista verrà mandata in onda dal Tg3 decine di volte, senza mai invitare un esperto a interpretare quelle frasi e spiegare che di fuffa si trattava (v. capitolo “Traffico d’armi”).
A Bosaso Ilaria e Miran sono ospiti di una ong italiana, Africa 70, che li porta a visitare un progetto a Gardo, lungo la strada che unisce il porto fino a Garoe, al confine con l’Etiopia. Non si capisce perché quella strada lunga 450 km e finanziata dall’Italia era definita da certa stampa inutile e faraonica. Che fosse costata più del dovuto, non avrei dubbi. Ma quando la percorsi nel 1997 non mi parve né inutile né faraonica: era un nastro d’asfalto, non un’autostrada, indispensabile per il commercio fra la costa e l’entroterra. I due inviati rimangono a Bosaso fino al 20 marzo. Valentino Casamenti, il logista di Africa 70, e gli altri cooperanti attesteranno che Ilaria non appariva eccitata da qualche scoperta sensazionale. Aveva fatto delle riprese di colore locale, si era offerta un bagno in mare e tornata a Mogadiscio, poco prima di esser uccisa, aveva telefonato a casa: “Mamma, sono arrivata a Mogadiscio. Stavolta è quasi una vacanza”.
I due inviati atterrano a Mogadiscio il 20: troppo tardi per presenziare al briefing organizzato il 18 dai militari italiani, in cui si pressavano i giornalisti a partire prima del contingente per non restare senza protezione. L’allarme era giustificato: sui muri erano apparse scritte anti-italiane, sopratutto a Mogadiscio nord; rimbalzavano voci di ritorsioni per impegni non mantenuti e danni non risarciti. «La città era in preda all’anarchia. Bande di rapinatori imperversavano in ogni quartiere, si moltiplicavano omicidi e sequestri a scopo di estorsione e i rischi per i giornalisti erano sempre più elevati. I militari in fase di smobilitazione si limitavano a difendere le loro basi» ricorda Giovanni Porzio in “Cronache dalle terre di nessuno” (Tropea Edizioni, 2007, pag. 94).
Giovanni Porzio fa parte di quello sparuto manipolo di corrispondenti di guerra che sui fronti ci vanno sul serio. Era tornato il 19 da Nairobi con Gabriella Simoni, inviata di Italia 1. Notando per strada solo «folle minacciose», decisero di rifugiarsi nella villa dell’imprenditore Giancarlo Marocchino invece che in albergo. Marocchino lo preciserà il 30 gennaio 1996 alla Commissione sulla Cooperazione: “Il generale Fiore aveva ordinato l’evacuazione, in quanto gli animi erano molto accesi contro gli italiani che avevano fatto promesse senza mantenerle. Molti incidenti provocati dall’esercito non erano stati risarciti ed erano state lanciate pietre contro la nostra ambasciata. [NdA = Peggio, era stata bersagliata da cecchini che avevano preso posizione nei pressi]. C’erano due strade per raggiungere la mia abitazione dal luogo dell’agguato: quella che passava per l’ambasciata era la più pericolosa ed è proprio quella percorsa da Ilaria”.
L’ATTACCO OMICIDA
Lo stato di pericolo in cui era sprofondata la capitale non era percepito da Ilaria e Miran. Lo conferma un dato cruciale. Atterrati a Mogadiscio sud, trovano al loro albergo (il Sahafi) l’autista del loro pick-up Toyota, Ali Mohamed Abdi, e un solo uomo di scorta, Mohamed Nur Aden, quasi un ragazzino. Manca l’altro, Ali Gajo, l’unico davvero esperto. Invece di aspettarlo, si dirigono con il solo Aden, noto per non avere nervi d’acciaio, verso l’hotel Amana a Mogadiscio nord, per cercare il collega dell’Ansa Remigio Benni. Una fretta fatale, una tentazione rara per i banditi sparsi in città, come mi chiarì nel 1996 il generale Ahmed Gilao, capo della “polizia” di Mogadiscio nord: “I due giornalisti non erano protetti. In quei tempi era indispensabile spostarsi con la scorta di una seconda auto e di più uomini armati, non di uno solo”. Gilao lo ripeté nel 2005 alla Commissione parlamentare. Il “Corriere della Sera”, ad esempio, aveva dotato Massimo Alberizzi di due ricetrasmittenti professionali Yaesu: una la lasciava spesso a Ilaria, che non l’aveva ottenuta dalla Rai, e Alberizzi lo riferì durante un “Maurizio Costanzo show”. Anche Giovanni Porzio ammonì che «qualche domanda al Tg3 andrebbe fatta per il risicato budget di cui disponeva Ilaria»[2].
All’hotel Amana Benni non c’è (è a Nairobi). Perciò Ilaria rientra in macchina e riparte. In quel momento una Land Rover azzurra con sette morian si getta all’inseguimento, blocca la Toyota, che fa marcia indietro, e inizia lo scontro a fuoco. Non c’è dubbio che a sparare per primo sia stato Aden, il ragazzo di scorta: messo alle strette ammetterà lui stesso questo particolare, essenziale per capire la reazione degli assalitori. Le perizie autoptiche definitive confermeranno che essi spararono a raffica e non a bruciapelo: altro dato che allontana la tesi di un’esecuzione mirata. Anche Porzio lo sottolinea nelle “Cronache dalle terre di nessuno” (pag. 97): “I miliziani erano sette. Forse volevano sequestrarli per ottenere un riscatto. Ma il ragazzo della scorta, preso dal panico, aveva sparato ferendo alle gambe due degli aggressori, che reagirono con ferocia. Mi chiedevo perché Ilaria avesse affidato la propria sicurezza a un inesperto ragazzino di 17 anni armato solo di un vecchio kalashnikov”. Che infatti si era inceppato subito.
Quel giorno Porzio e Simoni sono gli unici italiani nei pressi, al sicuro nella villa di Marocchino. Sono loro tre ad accorrere per primi: aiutano a prelevare i corpi e a trasportarli al porto, dove un elicottero li depositerà sulla tolda della “Garibaldi”. Quindi i due inviati corrono all’hotel Sahafi per raccogliere gli effetti personali delle due vittime, saldare il conto e portare tutto a bordo.
Nella notte trascorsa sulla nave il commissario di bordo li sveglia. Testimonia Porzio alla Commissione parlamentare il 6 maggio 2004: “Si doveva procedere all’inventario del bagaglio dei due colleghi. […] Furono compilati numerosi fogli d’inventario. C’erano numerosi colli, le valigie, il materiale televisivo, la telecamera, e man mano che venivano chiusi erano sigillati col piombo”. La Commissione lo incalza per sapere se, nel visionare taccuini e cassette, avessero scoperto utili indizi: “Né nelle cassette né negli appunti ci parve notare cose interessanti per l’accertamento dei motivi dell’agguato, e noi cercavamo proprio quello. […] Si è molto detto che su un taccuino ci fosse scritto Shifco, che si parlava delle navi. Ma anche sui miei taccuini c’è pieno di Shifco e di Marocchino. Tra i numeri di telefono c’era Shifco, Mugne, ecc. Però la cosa non ci incuriosì nemmeno, perché sono i nomi con cui ha a che fare chi lavora in Somalia”. [3]
Il giorno dopo tutto viene caricato, con le salme, sull’aereo per Mombasa. Anche Porzio e Simoni salgono a bordo e sedendo accanto al pallet garantiranno che nulla era stato manomesso fino a Mombasa. Precisa Porzio: “Diverso è il discorso Mombasa-Luxor e Luxor-Ciampino. A questo punto, però, le mie diventano ipotesi perché non ero a bordo, ma di alcune cose sono venuto a conoscenza. […] Eravamo convinti che i bagagli sarebbero arrivati come li avevamo messi sull’aereo e consegnati alle famiglie. Poi apprendemmo che erano stati aperti”. Li aveva aperti Giuseppe Bonavolontà, collega del Tg3, per consegnare le cassette alla Rai.
Giuseppe Cassini
già ambasciatore d’Italia a Mogadiscio
[1] Forse per indorare la pillola, Gallo inviò al ministro degli Esteri Dini una lettera che trasudava elogi: «Sento il dovere di segnalare l’opera preziosa che Cassini va compiendo per agevolare il non facile compito della Commissione ecc. ecc. Profondo conoscitore della grave situazione somala ecc ecc. Da ultimo ha scoperto tentativi di sostituzioni di persona intese ad inquinare l’attività di accertamento ecc. ecc. La Commissione si augura gli sia consentito di prestare la sua valorosa collaborazione anche in questa fase ecc. ecc.». Il ministero rispose: «Considerato il rischio ecc., sarà necessario che l’amb. Cassini sia assistito da almeno due ufficiali esperti di Somalia, affinché lo coadiuvino nelle ricerche in loco delle persone da interrogare». Non arrivò nessun ufficiale e mi arrangiai con i mezzi di bordo.
[2] Da un articolo di Giovanni Porzio intitolato “Un’irresponsabile distorsione mediatica” su Africa ExPress, quotidiano online, del 9 aprile 2014.
[3] Gabriella Simoni indirizzò ai coniugi Alpi una lettera il 22 marzo 1996: “Sono passati due anni, ma sembra che la gente abbia ancora voglia di pettegolezzi. So che qualcuno ha messo in giro la voce che sui “famosi” taccuini ci fossero appunti personali e addirittura “intimi” di Ilaria. Come sapete, sono l’unica, con Porzio e l’ufficiale della “Garibaldi”, ad averli letti. C’erano solo appunti e time codes con l’elenco delle immagini girate. Vi abbraccio con affetto e spero che vi lascino in pace”
(1 – continua)