Speciale per Africa ExPress
Cornelia I.Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 21 settembre 2018
Alcune aree intorno alla capitale etiopica e la stessa Addis Ababa sono state nuovamente teatro di terribili violenze: una trentina di persone hanno perso la vita tra sabato notte e lunedì. La tragedia si consumava mentre il primo ministro, Abiy Ahmed raccoglieva applausi dal mondo intero durante la visita a Jeddah (Arabia Saudita). Lì, durante una solenne cerimonia, presieduta da Salmān bin ʿAbd al-ʿAzīz Āl Saʿūd, monarca del regno wahabita, firmava un secondo trattato di pace con il presidente eritreo Isaias Afeworki.
Tramite il suo capo di gabinetto, Fitsum Arega, il leader etiopico ha fatto sapere di condannare le uccisioni e le violenze contro cittadini innocenti. Ciò nonostante e per la prima volta da quando è al potere, Abiy ha dovuto incassare una valanga di critiche da più parti. Sette partiti dell’opposizione, tra loro anche Patriotic-Ginbot 7 e il Fronte di Liberazione Oromo (entrambi hanno abbandonato la lotta armata con l’arrivo al potere di Abiy), hanno chiesto al governo di prevenire conflitti di questo genere e di consegnare i responsabili alla giustizia.
Alemayehu Ejigu, capo della polizia dell’Oromia, ha confermato che un gruppo ben organizzato avrebbe saccheggiato case e brutalmente ammazzato ben ventitré persone a Burayu, a ovest di Addis Ababa. Quasi novecento residenti, per lo più di etnia dorze e gamo, sono scappati dalle loro case. Le forze dell’ordine hanno fermato una settantina di sospettati, altri sono stati arrestati in seguito. Secondo alcuni testimoni oculari, le violenze sarebbero esplose dopo l’uccisone di una bimba di sei anni mentre erano in atto scaramucce tra giovani oromo e altre persone, appartenenti al gruppo etnico dorze. Zeynu Jemal, commissario della polizia federale, non esclude che dietro questi fatti possano nascondere possibili collegamenti di forze interne, intenzionate a screditare l’amminstrazione di Abiy. Resta il forte dubbio che siano state create deliberatamente tensioni tra gli oromo e altri gruppi residenti nell’area.
Lunedì migliaia di persone si sono riversate sulle strade di Addis Ababa, bloccando tutte le attività commerciali e il traffico per e dalla città. I manifestanti hanno protestato contro le violenze che si sono consumate durante il fine settimana, accusando giovani oromo, che avrebbero perpetrato attacchi sopratutto nei confronti di minoranze etniche dell’area, distruggendo le loro case e i loro negozi, urlando: “Andate via dalla nostra terra”.
La polizia ha risposto alla protesta nella capitale con brutalità e repressione; cinque persone sono state uccise dalle forze dell’ordine e nel pomeriggio le autorità hanno oscurato anche internet dai cellulari. Un triste ritorno al passato, che tutti avevano sperato di non dover rivivere mai più, perchè dall’insediamento del nuovo premier sembrava che si respirasse un’aria diversa, di riconciliazione. Proprio pochi giorni fa, dietro invito di Abiy, hanno fatto ritorno in patria anche i leader di Oromo Liberation Front (OLF) – gruppo ribelle che da anni aveva la sua base in Eritrea – e nella capitale erano stati accolti con gioia dai loro supporter.
Gli oromo sono il gruppo etnico più consistente del Paese e rappresentano un terzo della popolazione, eppure, si sono sempre sentiti emarginati, perché in precedenza non hanno mai avuto accesso a posti chiave nel governo.
L’ondata di proteste è iniziata nel novembre 2015 nella città di Ginchi nell’Oromia perché il governo centrale aveva predisposto l’esproprio di molti terreni agricoli per destinarli all’espansione della capitale Addis Ababa. Numerosi agricoltori si sarebbero così trovati in difficoltà senza la loro terra e senza lavoro. C’era il pericolo che si potessero trasformare in sfollati. Tale progetto fortunatamente non è stato messo in atto, ma le proteste si sono protratte, perché molti manifestanti non sono stati rimessi in libertà.
Tra la fine del 2015 e il 2016 sono morte oltre mille persone, molti oppositori del partito al potere, Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front “(EPRDF), sono stati arrestati e a causa degli scontri e oltre un milione di uomini, donne, bambini hanno dovuto lasciare le proprie case.
Attualmente l’Etiopia ospita oltre novecentocinquantamila rifugiati, numero che tende ad aumentare di giorno in giorno dopo l’apertura ufficiale di alcuni posti di frontiera con l’Eritrea. Dalla terribile dittatura al potere ad Asmara fuggono quotidianamente centinaia di persone e, una volta entrati in Etiopia legalmente, chiedono ora asilo politico. Gli sfollati sono circa 2,6 milioni, tra loro 1,4 milioni hanno abbandonato la loro terra tra gennaio e giugno di quest’anno a causa di ostilità e violenze.
All’inizio dell’anno, l’allora primo ministro, Hailemariam Desalegn, aveva annunciato che avrebbe rilasciato tutti i prigionieri politici e chiuso la famigerata prigione Maekelawi, famosa per gli abusi contro i detenuti, comprese – come spesso avevano denunciato le organizzazioni per la difesa dei diritti umani – torture e umiliazioni corporali. Ma un mese più tardi, proprio a causa delle molteplici proteste anti-governative, che hanno lasciato segni di frattura nella coalizione al potere, il premier si è dimesso. Allora aveva precisato: “Spero che con le mie dimissioni si possano effettuare le riforme, necessarie per una pace sostenibile e una reale democrazia”.
L’EPRDF ha allora designato come successore di Desalegn, Abiy Ahmed, di etnia oromo. Il nuovo leader, seguendo la strategia di riconciliazione, ha aperto il dialogo con gli oppositori interni e con il nemico giurato di sempre, l’Eritrea.
Molti analisti sono sorpresi e preoccupati per questa nuova ondata di violenze. Awol Allo, lettore alla facoltà di diritto dell’università di Keele si è espresso in questi termini: “Queste violenze non hanno alcun senso, specie ora che il Paese ha intrapreso notevoli sforzi per la democratizzazione”. E ha puntualizzato: “Le stesse persone hanno vissuto in pace in momenti difficili, sotto governi molto autoritari ed ora, che hanno maggiore libertà, si rivoltano gli uni contro gli altri. Spero che i responsabili vengano individuati e consegnati alla giustizia”.
Cornelia I. Toelgyes
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