Dal nostro corrispondente
Franco Nofori
Mombasa, 26 maggio 2017
Sono africani, ma la loro pelle è bianca come il latte e la testa completamente canuta o rossiccia. La loro condizione è dovuta ad una carenza di melanina, una malattia genetica che, soprattutto in Tanzania, colpisce una significativa parte della popolazione locale. In tutta l’Africa, comunque, incontrare persone affetta da albinismo è comune, molto di più che in Europa.
Si tratta di un’affezione ereditaria che non si esaurisce soltanto in un diverso aspetto fisico, rispetto all’etnia di appartenenza, ma comporta anche non poche problematiche esistenziali favorendo l’insorgere di tumori epidermici e riducendo in genere la protezione del sistema immunitario e quindi anche l’aspettativa di vita.
Ma questa inclemenza della sorte sembra non bastare a rendere difficile la vita degli albini. In alcuni paesi africani, soprattutto in Tanzania, radicate superstizioni e ritualità tribali, fanno degli albini una fonte di approvvigionamento di organi da impiegare in riti propiziatori da parte degli stregoni dei villaggi. Questo porta, soprattutto nelle zone più remote e primitive, ad una costante caccia all’albino che viene ucciso, fatto a pezzi e le sue parti vendute per i raccapriccianti scopi anzidetti.
In questo vergognoso mercato si stima che l’arto di un albino possa essere venduto fino a 600 euro, mentre il valore di un corpo intero riesce anche superare i 70,000 euro! E’ fatale che trattandosi di tali cifre, questo indegno mercato attiri enormi interessi da parte di trafficanti disumani e senza scrupoli che, pur se del tutto indifferenti alle presunte proprietà magiche di questi poveri corpi smembrati, non esitano a ritagliarsi sostanziose fette di profitto.
A Mtwapa, sulla costa nord del Kenya, ho incontrato Abdul, un albino diciottenne che in modo rocambolesco è riuscito a sottrarsi alla cattura rifugiandosi in Kenya, dove la credenza sulle proprietà magiche degli albini è scarsamente diffusa. Abdul è un ragazzo sveglio che è fuggito dalla Tanzania un anno prima di riuscire a completare l’istruzione secondaria. Si esprime in modo appropriato, in un inglese discreto anche se limitato ai vocaboli. Sotto un cappello a larga tesa, che protegge dai raggi del sole i sensibili ed incredibili occhi azzurro cenerino, mi racconta la sua storia.
In Tanzania, dopo aver lasciato il villaggio natio di Magagadu nell’isola di Pemba, si era trasferito con Aziza, una sorella di tre anni più grande, anche lei albina, in un quartiere periferico di Tanga. Allora aveva appena completato l’istruzione primaria e intendeva proseguire gli studi nella cittadina costiera fino al conseguimento del diploma.
“Mia sorella era una brava sarta – racconta – e io, nelle ore libere, giravo per Tanga consegnando i suoi lavori e cercando di procacciare nuovi clienti. Non eravamo ricchi, ma riuscivamo a mangiare tutti i giorni e a vivere in modo decoroso. Poi, due mesi fa, di notte, la nostra capanna è stata assalita da quattro uomini che ci hanno catturati entrambi. Ci hanno legati, infilati dentro a dei sacchi di juta e caricati sul pianale di un pick-up. Abbiamo viaggiato per più di due ore su strade dissestate, poi il pick-up si è fermato ed hanno scaricato mia sorella. Io non vedevo nulla, ma sentivo lei gridare e loro che urlavano per zittirla.
Parlavano in un dialetto dell’interno che non potevo comprendere. Credo fossero Chaga (tribù che vive a ridosso del lago Vittoria, n.d.a.) ma non ne sono sicuro. Poi il pick-up è ripartito, ma io, in qualche modo ero riuscito a liberarmi le mani e afferrandomi ai bordi del cassone, sono riuscito a catapultarmi fuori. La velocità non era molto alta, ma cadendo mi sono rotto il polso sinistro.” Gli chiedo come ha poi fatto a cavarsela: “Mi sono steccato il polso con dei rami – risponde – e li ho legati stretti con delle strisce di juta ricavate del sacco. Poi ho camminato per tutta la notte e per l’intero giorno successivo attraverso il bush, finché, all’imbrunire, sono arrivato in Kenya”.
Una storia incredibile, quella del povero Abdul, eppure una storia che in Tanzania si è ripetuta decine e decine di volte. Sulla fine di Aziza, sua sorella, c’è poco da illudersi: gli organi femminili di una donna albina, non sono ritenuti così efficaci come quelli maschili per l’impiego nelle pratiche di stregoneria, ma c’è una barbara e assurda credenza che colpisce anche loro. Esse, dietro pagamento, vengono infatti rese disponibili ai malati di Aids che, stuprandole, sono convinti di potersi liberare dal morbo.
Cosa farai adesso? Chiedo ad Abdul. Lui si stringe nelle spalle: “Qui non starei male – risponde – vivo a casa di una amico keniano, anche lui albino. Fa il falegname ed io lo aiuto come posso, ma devo andarmene al più presto, perché sono entrato illegalmente in Kenya e se la polizia mi trova, mi arresta e poi mi rimanda in Tanzania”.
E dove vorresti andare? “Il mio amico mi ha detto che c’è un isola nel lago Vittoria dove si sono rifugiati molti albini come me. Lì sono protetti e vivono in pace. Io voglio cercare di andare lì. Tu mi potresti aiutare? Bastano 5,000 scellini.”
E’ un appello commovente ed accorato al quale è difficile resistere. So di che isola si tratta. E’ l’isola di Ukerewe, la più grande del lago Vittoria che è sotto la giurisdizione della Tanzania. Conta circa 150,000 abitanti ed ha la più grande concentrazione di albini del modo. Grazie all’aiuto delle organizzazioni umanitarie internazionali, l’isola si è dotata di una struttura medica specializzata nella cura dell’albinismo e anche di un consultorio legale per i diritti civili degli “africani bianchi”. Ciò nonostante l’impudente ingordigia dei trafficanti continua a tentare di appropriarsi di queste sfortunate creature che vedono la loro serenità nuovamente minacciata. Fino ad ora nessuno di questi tentativi ha avuto successo, ma occorre una presa di coscienza seria e fattiva perché agli albini venga garantita la pace e la sicurezza a cui, come ogni altro essere umano, hanno incontestabile diritto.
Abdul è di religione islamica, fede che, come quella cristiana, aborrisce ogni tipo di violenza nei confronti degli albini, ma si sa che in Africa, su ogni religione monoteista importata dall’esterno, prevalgono sempre le superstizioni e le ritualità tribali dotate di radici ancestrali cosi radicate che occorreranno secoli per riuscire ad estirparle.
Abdul è partito oggi alla volta della sua isola felice, ma a me piace già immaginarlo sorridente e sereno mentre, appollaiato su uno scoglio di Ukerewe, getta la lenza nelle placide acque del lago Vittoria per procurarsi il pasto quotidiano.
Franco Nofori
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