EDITORIALE
Federica Iezzi
Gaza City, 20 dicembre 2024
In Medio Oriente il fronte di guerra aspetta solo di espandersi. Non è passato inosservato al Cairo il delirante piano di Netanyahu sulla creazione di un Grande Israele. In nome della lettura vaneggiante dei testi biblici, è uno Stato che comprende parti di Libano, Siria, Iraq, Giordania, Arabia Saudita ma anche Egitto orientale, oltre al Sinai.
Il massacro orrendo ed esecrabile del 7 ottobre è l’inesorabile risultato di 76 anni di pulizia etnica che il popolo palestinese ha subito per mano di Israele dal 1948. E’ il risultato di 57 anni di occupazione militare israeliana di Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza, che si è evoluta nel peggior sistema di apartheid della storia moderna.
E’ il risultato di una politica israeliana assertiva che ha portato alla scomparsa del piano di partizione della Palestina in due Stati, in cui i palestinesi avrebbero dovuto costruire uno Stato sul 22 per cento del loro territorio, mentre la risoluzione 181 delle Nazioni Unite concedeva loro il 44 per cento di terra, quando in realtà possedevano l’82% della terra della Palestina storica.
Questa politica è il risultato della legge sullo Stato-Nazione del parlamento israeliano – risalente al 2018 -, che riserva al solo popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione nella Palestina storica – in ebraico Erétz Yisra’él (Terra di Israele).
A questo seguono le nauseanti affermazioni di Bezalel Smotrich, ministro delle finanze israeliano, secondo cui Israele colmerà illegalmente la Cisgiordania di insediamenti israeliani finché i palestinesi non perderanno ogni speranza di avere un proprio Stato e dovranno dunque scegliere tra immigrazione (pulizia etnica), sottomissione agli israeliani (apartheid) o morte (genocidio).
La realtà è che né Nazioni Unite né governi occidentali sono stati in grado di far rispettare a Tel Aviv l’attuazione di oltre 84 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e di circa 800 risoluzioni dell’Assemblea Generale a sostegno dei diritti dei palestinesi.
Né i milioni di profughi palestinesi parcheggiati nei campi, né il naufragio di un intero popolo nel 1948 hanno mai spostato un’Europa traumatizzata dalla seconda guerra mondiale. Dopo il 1967, la solidarietà globale inizia ad avere una flebile voce. Ma ci sono voluti l’invasione israeliana del Libano nel 1982 e la prima Intifada nel 1987 perché la solidarietà con la Palestina giocasse un vero ruolo.
L’assassinio di Stephen Biko, studente e attivista, da parte della polizia del regime sudafricano nel 1977 – un anno dopo le rivolte di Soweto – suscitò più indignazione dell’eliminazione di migliaia di oppositori da parte del dittatore etiopico Mengistu. Ma perché?
L’opinione pubblica internazionale non misura le proprie reazioni esclusivamente con il metro della macabra conta. Perché in uno specifico momento storico, un conflitto può esprimere la verità di un’epoca, superando il quadro ristretto della sua collocazione geografica, per acquisire una portata universale.
La storia del secolo scorso ha visto come assoluta protagonista l’emancipazione dal giogo coloniale e nonostante le differenze, Vietnam, Sudafrica e Palestina si trovano tutti sulla linea di gestazione di un nuovo mondo basato sul principio di uguaglianza tra i popoli.
E’ vero la copertura del conflitto israelo-palestinese segue regole diverse. Infatti, quale altro esempio si conosce di un’occupazione condannata per più di quarant’anni dalle Nazioni Unite senza risultati né sanzioni? Quale altro caso esiste in cui un Paese possa installare illecitamente più di 500.000 coloni nei territori che occupa senza che la comunità internazionale emetta altro che condanne verbali senza effetto?
Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
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