Cornelia I. Toelgyes
26 novembre 2024
“In Sudan la violenza sessuale è diventata un’epidemia”. E’ l’allarme lanciato da Tom Fltecher, sottosegretario generale per gli Affari umanitari e coordinatore degli aiuti di emergenza delle Nazioni Unite, OCHA, durante la sua breve visita a Port Sudan.
In Sudan, devastato dalla guerra dalla primavera 2023, non ci sono scarpette con il tacco a spillo rosse, e nemmeno le panchine dello stesso colore o manifestazioni in piazza per denunciare queste atrocità.
Pochi ricorderanno l’immagine di Aala Sallah, la coraggiosa giovane sudanese, in prima fila durante le proteste contro l’ex dittatore Omar al-Bahir nel 2019. L’ex despota è poi stato defenestrato dai militari nell’aprile dello stesso anno.
Non solo lei, ma, secondo alcune stime, durante le manifestazioni in piazza le donne rappresentavano i due terzi dei dimostranti. Le coraggiose signore e ragazze erano stanche di sopportare emarginazioni, molestie, violenze e stupri. Desideravano un futuro migliore per i loro figli. Ma ora ci risiamo.
E l’ex presidente della Liberia, Ellen Johnson Sirleaf, ha lanciato un appello: “Non ignoriamo la sofferenza delle donne sudanesi”.
Nell’ex protettorato anglo-egiziano il conflitto tra i due generali, Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, leader delle Rapid Support Forces (RSF), e il de facto presidente e capo dell’esercito, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, ha costretto alla fuga milioni di persone.
E entrambe le fazioni in causa sono responsabili di violenze sessuali contro le donne, aggressioni che sono una vera e propria arma da guerra.
Secondo i dati dell’ONU oltre 14 milioni di persone hanno lasciato le proprie case dall’inizio di questo atroce conflitto. Più di 11 milioni sono sfollati, mentre più di 3,1 milioni di persone hanno cercato rifugio nei Paesi limitrofi. E i morti?
In base a recenti studi, il numero di persone morte a causa della guerra è ben più elevato di quanto riportato in precedenza. Secondo un rapporto pubblicato dal Gruppo di ricerca sul Sudan della London School of Hygiene and Tropical Medicine nel solo Stato di Khartoum sarebbero oltre 61mila e molti altri nel resto del Paese, in particolare in Darfur.
Finora, le Nazioni Unite e le altre agenzie umanitarie hanno utilizzato la cifra di 20.000 morti accertati, precisando però che questo dato è certamente sottostimato.
A causa dei combattimenti e del caos nel Paese, non è stato registrato sistematicamente il numero di persone uccise. Ma già a maggio di quest’anno, Tom Periello, inviato speciale degli Stati Uniti per il Sudan, aveva dichiarato che, secondo alcune stime, i morti durante il primo anno di guerra potrebbero essere 150mila.
In Sudan si sta consumando una crisi umanitaria senza precedenti. L’80 per cento degli ospedali sono chiusi o funzionano solo parzialmente per mancanza di personale e/o medicinali e equipaggiamento sanitario.
Oltre 25 milioni di persone necessitano di aiuti alimentari, tra questi 755mila sono in condizioni di fame acuta. E a pagare il prezzo più elevato sono sempre i bambini, la malnutrizione grave colpisce soprattutto i più piccoli.
All’inizio di questa settimana il Consiglio sovrano, cioè il governo, ha concesso all’ONU l’utilizzo di tre aeroporti nel Paese (Kadugli, nel Sud Kordofan, El Obeid in Nord Kordofan, Damazin nella regione del Blue Nile) e lo stoccaggio di aiuti umanitari.
Inoltre a metà novembre è stata prolungata l’apertura del valico di Adré al confine con il Ciad. Inizialmente le autorità avevano concesso il passaggio dei convogli per soli tre mesi, in quanto alcuni membri del governo avevano protestato che attraverso il valico arrivavano pure armi per le RSF.
E finalmente sono arrivati anche i primi camion con aiuti umanitari nel campo per sfollati di Zamzam (nord del Darfur), dove l’ONU lo scorso agosto aveva denunciato condizioni di carestia. L’insediamento ospita quasi mezzo milione di persone.
PAM (Programma Alimentare Mondiale dell’ONU) ha spiegato che a Zamzam le consegne di cibo sono state bloccate per mesi. Feroci combattimenti nella vicina città di al-Fashir, capoluogo del Darfur Settentrionale e strade, diventate impraticabili per le forti piogge degli ultimi mesi, sono state le cause di questi ritardi.
Intanto la guerra procede la sua folle corsa. In un articolo di una decina di giorni fa, Amnesty International ha denunciato che in Darfur sono stati avvistati veicoli blindati per il trasporto di persone, fabbricati negli Emirati Arabi Uniti (EAU) dal gruppo EDGE.
La holding industriale emiratina in questione, attiva nel settore bellico, ha recentemente siglato un Memorandum of Understanding (MoU) con l’italiana Fincantieri.
In alcune foto scattate l’estate scorsa, sono ben visibili i blindati APC Nimr Ajban, in dotazione ai paramilitari delle RFS. E grazie alle ricerche effettuate da Amnesty, è stato evidenziato che le vetture dispongono di sistemi di difesa GALIX, prodotti in Francia da Lacroix Défense e progettato in collaborazione con Nexter (ora KNDS France).
Secondo il segretario generale di Amnesty, Agnès Callamard, il sistema GALIX è impiegato dalle RSF e il suo utilizzo in Darfur costituirebbe una chiara violazione dell’embargo sulle armi imposto dall’ONU. “Il governo francese deve dunque garantire che Lacroix Défense e KNDS France cessino immediatamente di fornire questo sistema agli Emirati Arabi Uniti”, ha sottolineato Callamard.
Cornelia Toelgyes
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