ISRAELE

UNIFIL, missione di pace in un Libano in guerra

dal sito Centro per la Riforma dello Stato
Giuseppe Ino Cassini *
13 ottobre 2024

“Meloni: proteggere l’UNIFIL (United Nations Interim Force In Lebanon) intitola la stampa in questi giorni arroventati sul confine tra Libano e Israele. Al che molti si domandano: “Ma allora, che ci stanno a fare 12.000 soldati dell’ONU dispiegati lungo la frontiera, se non sono in grado di fermare le armi, anzi vanno protetti loro stessi?!”.

Semplice. La Carta dell’ONU distingue nettamente le missioni di peacekeeping dalle missioni di peace-enforcement. Le prime prevedono l’invio di “caschi blu” muniti di solo armamento leggero per difesa personale, con compiti di interposizione e di soccorso alle popolazioni civili (sminamento, sbarramenti, ricostruzione di opere essenziali, ecc.). Le seconde sono vere e proprie spedizioni armate dell’ONU per fermare i combattenti con la forza.

Peculiarità

L’UNIFIL è una missione di peacekeeping, con alcune peculiarità che la rendono unica nel suo genere. Anzitutto, è composta da una panoplia di quaranta e più nazioni (oltre mille gli italiani), il che non facilita certo le operazioni sul campo.

Inoltre, il “campo” è una fascia di confine dall’orografia tormentata ma geograficamente ristretta: va dal mare al monte Hermon. Dunque, se si aggiungono ai “caschi blu” i tanti miliziani di Hezbollah e i militari libanesi in arrivo, nel sud del Libano si conta un armato ogni sette abitanti (o forse ogni cinque, dopo che decine di migliaia i libanesi sono sfollati in gran fretta verso nord nel timore di essere bombardati).

UNIFIL campo medico

Ogni missione di pace sotto bandiera dell’ONU nasce “a fin di bene”: si ama definirla operazione di “ingerenza umanitaria”. Due parole che però costituiscono un ossimoro: ingerenza è un termine negativo, collegato a uno positivo, umanitaria.

Ambiguità

E come in ogni ossimoro si galleggia nell’ambiguità. Intanto, perché non c’è missione di pace senza la partecipazione di Stati per i quali l’intervento-soccorso risponde anche a propri interessi strategici. Poi perché non c’è missione che non provochi qualche guaio causato dalla presenza di tanti operatori stranieri: inflazione, intrusione nei costumi locali, perfino corruzione.

Difficile evitare la “tentazione del bene” e i suoi effetti indesiderati. Si sa quanto può irritare una vecchietta il boy-scout che l’aiuta ad attraversare la strada, pur di compiere la sua buona azione quotidiana, e poi se ne va lasciandola persa sul marciapiede sbagliato (è ciò che accadde in Somalia con l’operazione “Restore Hope”… quale speranza?!).

La missione dell’UNIFIL, a differenza di altre, è una storia di successo, anche perché la zona d’operazione è abitata al 90 per cento da sciiti, in maggioranza simpatizzanti di Hezbollah (religioso) o di Amal (laico). È bastato, perciò, stringere con i loro leader un patto tacito ma chiaro: “Primo, siamo qui perché a voi sta bene così; secondo, quando non ci volete più, fatecelo sapere per tempo e civilmente, non a suon di bombe”.

Convivenza

Patti chiari, amicizia lunga. In tanti anni laggiù non ho personalmente incontrato nessuno che fosse contrario alla presenza di UNIFIL. Una convivenza, infatti, che dura dal 1978. Le sole perdite subite sono state opera dell’aviazione israeliana, accanitasi più volte contro le postazioni ONU, o del Jihad sunnita incistato in campi profughi palestinesi. (Da notare, però, che i jihadisti perseguivano ben altro fine: umiliare Hezbollah dimostrando che non ha sul territorio il controllo che sostiene di avere; il che fa parte dell’eterna lotta tra sunniti e sciiti).

Caschi blu di UNIFIL

Un’ultima questione. La prima “i” di UNIFIL sta per “interim”. È normale che una missione di peacekeeping ad interim duri quasi mezzo secolo? Evidentemente no, vuol dire che la pacificazione della regione è di là da venire.

Disarmare

La Risoluzione 1701 dell’ONU – votata l’11 agosto 2006 per fermare la guerra scoppiata quel luglio – prevedeva che l’area venisse evacuata da ogni arma al di fuori di quelle in dotazione all’esercito libanese o ai “caschi blu”.

Ovvero disarmare Hezbollah. Era un’opzione praticabile? Lasciare che lo sparuto esercito libanese, in caso di crisi, se la vedesse da solo contro lo strapotere militare del vicino? Senza aviazione, mentre il cielo libanese veniva (e viene) sorvolato da decenni, ogni giorno, da caccia armati di missili già puntati?

Tra Libano e Israele non esistono Stati-cuscinetto. Essendo dunque destinati a una drammatica contiguità, vale la pena ricordare la memorabile massima biblica rivisitata da Woody Allen: “Il leone e il vitello giaceranno insieme, ma il vitello dormirà ben poco”.

Giuseppe Cassini*
ino.cassini@gmail.com

*Giuseppe (Ino) Cassini è stato un diplomatico italiano, ambasciatore in Somalia e in Libano. Ha lavorato anche in Belgio, Algeria, Cuba, Stati Uniti, Ginevra (ONU). Autore di Gli anni del declino, La politica estera del governo Berlusconi (2001-2006) (Bruno Mondadori 2007) e dell’ebook Anatomia di una guerra, Quella “stupida” guerra in Iraq (Narcissus 2013), conosce bene l’America profonda, l’America che afferma: “Washington non è la soluzione, è il problema”.

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Redazione Africa ExPress

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  • Articolo interessante, tuttavia non si capisce come possa essere considerata una "storia di successo", visto che il contingente Unifil starebbe lì da decenni, per aiutare l'esercito libanese a disarmare le milizie Hezbollah che invece sono armatissime. Sarebbe interessante sapere: quali sono i risultati ottenuti; quanto è costata finora all'Onu la missione; quanto costano i soldati italiani e chi li paga. Grazie

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