Federica Iezzi
19 settembre 2024
La cronistoria dello scorso ottobre ha facilitato il lavoro di nazificazione portato avanti da Israele contro i palestinesi, ravvivando la memoria collettiva e tenendo vivo il trauma intergenerazionale dell’antisemitismo. È naturale che gli ebrei, sia in Israele che nella diaspora, cerchino ancora spiegazioni della violenza antisemita, negli scorci di storia.
Ma la memoria può alimentare anche la cecità. Il popolo ebraico occupa oggi una posizione unica nella memoria del mondo occidentale. Le sue sofferenze vengono messe in luce e tutelate giuridicamente, come se gli ebrei dovessero sempre essere soggetti a una legislazione speciale. Questo mentre lo Stato israeliano non onora il diritto internazionale radendo al suolo quartieri di Gaza e massacrando intere famiglie.
Gli abitanti di Gaza, non solo sono costretti a pagare per le azioni di Israele, ma anche, ancora una volta, pagano per i crimini di Hitler. E l’imperativo di invocare l’Olocausto è diventato la vera cupola di ferro ideologica di Israele, il suo scudo contro qualsiasi critica alle sue azioni.
Ma stiamo attenti. Nessuno si riprenderà dalla barbarie guidata dall’egoismo o dalla codardia. Ciò che accade in Palestina avviene oggi in un contesto di sopruso globalizzato. Accettare il massacro perpetrato dallo Stato di Israele significa prepararsi ad altre tragedie a venire, in un’inestinguibile corsa all’orrore guidata da mostri convinti che la forza sia l’unico potere.
La storia giudica severamente coloro che assumono il ruolo di meri osservatori quando si verificano grandi danni e ignora coloro che rimangono neutrali di fronte a crisi morali. Più che mai, la pace è essenziale. Va detto senza timore di discorsi di odio.
In un’epoca di sconfitta e smobilitazione, in cui le voci più estremiste sono amplificate dai media, vince il culto della forza, cortocircuitando ogni forma di empatia. Il razzismo, l’odio, il risentimento, il desiderio di vendetta non possono alimentare una guerra di liberazione. L’odio non può costituire un programma.
Netanyahu davvero crede di poter costringere i palestinesi a consegnare le armi o a rinunciare al loro ideale di uno Stato, bombardandoli fino alla sottomissione? Questo è già stato tentato, e più di una volta. Il risultato inevitabile è stato l’emergere di una nuova generazione di palestinesi ancora più forti. Perché non abbandonare Gaza e fuggire? Figli della Nakba, i palestinesi di Gaza sono in realtà prigionieri di un territorio che è stato tagliato fuori dal resto della Palestina. Ma è la terra delle loro vite.
Israele, invece, è sempre più incapace di cambiare rotta. Alla sua classe politica mancano l’immaginazione e la creatività necessarie per perseguire un accordo duraturo, per non parlare del senso di giustizia e della dignità dell’altro.
Lungi dal normalizzare lo Stato di Israele considerandolo uno Stato come gli altri – soggetto alle stesse regole di diritto internazionale degli Stati sovrani – il sostegno della Comunità Internazionale cade in una relazione malata che consiste nel rendere lo Stato ebraico – Lo Stato -. Una sorta di mostro geopolitico che ci asteniamo dal criticare.
Nulla spiega perché i Paesi che possono rivendicare un’influenza sulle autorità israeliane siano così assenti e rassegnati a un falso status quo. Gli anni di banalizzazione di una situazione inaccettabile hanno reso Gaza un territorio perduto dalla coscienza internazionale. Un giorno dovremo pagare il prezzo morale dell’inazione.
L’unico quadro che può salvare Israele e Palestina ed evitare una nuova Nakba – che è diventata una possibilità reale, mentre una nuova Shoah è solo un’allucinazione di origine traumatica – è una soluzione politica che garantisca ad entrambi i popoli uguali diritti di cittadinanza e permetta loro di vivere in libertà.
Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
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