Ho riesumato dal mio archivio questo articolo
scritto nel maggio 1988, oggi più che mai attuale
dopo l’attentato in Libano organizzato da Israele
che ha fatto “saltare” circa tremila cercapersone
con 11 morti, compresi parecchi civili.
Massimo A. Alberizzi
maggio 1988
Le pietre lanciate dai giovani palestinesi contro l’esercito d’occupazione israeliano, stanno colpendo il segno molto più delle pallottole dei mitra sparati dai fedayn esperti e ben addestrati. Gerusalemme con la sua politica di repressione violenta si sta pian piano alienando le residue simpatie internazionali che ancora gli restano.
L’assassinio di Abu Jihad, a Tunisi il 16 aprile 1988, ha poi danneggiato gravemente l’immagine di Israele soprattutto quando si è saputo che anche i laburisti avevano appoggiato l’operazione del Mossad in terra tunisina.
Gli israeliani hanno una strana idea del terrorismo. Loro credono che terrorista sia solo chi piazza una bomba in un mercato (peraltro fu proprio l’Irgun* a inaugurare la stagione degli attentati in Medio Oriente). Considerano legittimo, invece, violare la sovranità di uno Stato per colpire i nemici. Applicano le regole bibliche del “dente per dente” alla perfezione. Anzi, l’hanno adeguata ai tempi, trasformandola nel più immediato “il fine che giustifica i mezzi”.
Certo, Israele si sente aggredita. E’ logico che i suoi governanti soffrono di una sindrome dell’accerchiamento. Meno facile e capire perché, invece di cercare una soluzione pacifica al conflitto che insanguina la regione, si richiudono su se stessi e sparino alla cieca. Una politica folle che si ritorce proprio contro chi l’ha ideata e voluta. L’assassinio di Abu Jihad per esempio, giova solo alla causa dei falchi palestinesi, a quelli che continuano a ripetere che con gli israeliani non si può avere dialogo, che lo Stato ebraico va distrutto.
Gerusalemme getta benzina sul fuoco della guerra e dà respiro ai più radicali dei suoi amici proprio mentre un lento processo di revisione sta portando la dirigenza dell’OLP verso posizioni meno intransigenti.
Degli anni ‘70 nessuno avrebbe immaginato che Arafat avrebbe potuto ammettere un esplicito riconoscimento di Israele. Oggi questa possibilità è assai concreta; i dirigenti palestinesi attendono da parte avversaria gesti distensivi che invece tardano. All’OLP che chiede un riconoscimento reciproco – il che mi pare logico giacché al tavolo da gioco siedono due avversari – viene risposto con un secco “no, con i terroristi non si tratta”, uno slogan che espresso in questo modo chiude qualunque prospettiva di pace.
Deludono anche i socialisti di Perez che quando accettano l’ipotesi di una conferenza di pace, limitano la partecipazione palestinese a una delegazione mista con i giordani che escluda tassativamente rappresentanti dell’OLP.
Volenti o nolenti, l’organizzazione di Arafat rappresenta la maggioranza dei palestinesi (e lo si è visto dal numero delle bandiere che spuntano quotidianamente durante le manifestazioni nei territori occupati). Una pace senza di essa e il raggiungibile e il solo proporla è una presa in giro.
Proviamo immaginare uno scenario nel quale al tavolo dei negoziati siedono tutti, tranne l’OLP. Come si fa a pensare che un eventuale accordo raggiunto posso trovare una reale applicazione senza l’approvazione della centrale palestinese le cui mani, al pari di quella israeliane, impugnano le leve della guerra?
C’è da chiedersi se Israele abbia mai perseguito seriamente progetti di pace. I suoi governanti credono di essere al di sopra delle regole che governano la convivenza civile. I benpensanti nostrani ci sarebbero certamente indignati se un comando di 007 sovietici avessero rapito in Italia che so io, un dissidente fuggito da Mosca per riportarlo in patria.
Nessuno invece ha protestato quando gli agenti del Mossad il 30 settembre 1986 hanno sequestrato a Roma il fisico Mordechai Vanunu e l’hanno ricondotto a Gerusalemme. L’idea che a Israele, poveretta, aggredita e accerchiata sia permesso tutto, francamente non ci convince. Anzi proprio per questo atteggiamento da gendarme che siamo schierati con i palestinesi e non con gli israeliani.
Esattamente come sempre abbiamo cercato di sostenere gli oppressi contro gli oppressori, i neri sudafricani contro il governo dell’apartheid, le derelitte popolazioni africane contro le dittature sanguinarie e dispotiche.
I sostenitori di Israele si permettono di lanciare contro chi osa criticare la politica di Gerusalemme un’accusa degna dei tempi oscuri e ormai passati: antisemitismo. Una parola che fa paura solo al pronunciarla.
È bene sgombrare una volta per tutte – e definitivamente – il campo da un simile imbroglio. Le critiche piovono su un governo, su una politica, su una filosofia non su un popolo o su una razza. Non è mai stato accusato di essere razzista anti-bianco chi condanna il regime sudafricano, né razzista anti-etiopico chi sostiene le legittime aspirazioni del popolo eritreo contro la sanguinaria dittatura di Addis Abeba, né infine razzista anti-tedesco chi è o è stato ferocemente contrario al nazismo. Che dire poi di quegli ebrei (e sono tanti!) Che puntano il dito accusatore contro il governo israeliano: sono per questo anch’essi antisemiti? No, chi rivolge queste accuse ai suoi critici sa di essere a corto di argomenti, sa di sbagliare ma, chissà perché, intende perseverare nell’errore.
Massimo Alberizzi
X: @malberizzi
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