Ettore Vittorini
17 settembre 2024
La guerra in Medio Oriente ormai minaccia anche il Libano: dal Sud di questo piccolo Paese gli Hezbollah lanciano missili su Israele e da qui si risponde con duri bombardamenti che costringono la popolazione a fuggire verso Nord e a rifugiarsi a Beirut.
Il Libano è divenuto un territorio nel quale si combattono le guerre altrui. Eppure questa giovane nazione, ex Mandato francese, divenne indipendente nel 1943 con un regime democratico che contribuì al suo benessere. Venne definita la “Svizzera del Medio Oriente”.
Ma quei tempi d’oro durarono poco più di quarant’anni sino allo scoppio nel ’75 des evéneménts, come i libanesi di lingua francese definiscono l’inizio della sanguinosa guerra civile durata 15 anni, che attirò gli eserciti della regione, dall’Olp a Israele, dalla Siria all’Hezbollah.
Oggi la popolazione del Libano è ostaggio di quest’ultima organizzazione terroristica ben armata dall’Iran nata nel 1982 e radicatasi nel Paese, da dove, a Sud, tiene la Galilea israeliana sotto il tiro di continui attacchi con missili, droni ed incursioni. Ovviamente la risposta dello Stato ebraico è molto dura: come accade a Gaza la popolazione civile ne subisce le tragiche conseguenze.
I libanesi si aspettano da un giorno all’altro l’invasione delle truppe israeliane: ormai il loro Paese ha perso il fascino e la ricchezza di un tempo.
A questo proposito riporto alcune frasi di una recente intervista di Repubblica a due signore d Beirut appartenenti al mondo laico della cultura del Paese. “La vita è impossibile per noi libanesi, sempre in guerra e costretti al silenzio – afferma Rasha Al Amir, responsabile di una Casa editrice. – Tutti stanno fuggendo via verso la montagna, verso Nord. La gente qui ha paura, non di Israele ma di Hezbollah. Criticarli significa rischiare: questa è gente che uccide. Chi critica riceve prima un avvertimento, poi muore, come è successo a mio fratello Lockman che era scomodo, autorevole e parlava. Aveva puntato il dito contro Hezbollah per la strage nel porto di Beirut del 2021.Lo hanno assassinato”.
“Oggi il Paese non è governato da persone normali; noi cittadini siamo le loro vittime – dice la scrittrice Alawyah Sobh. – Non siamo stati noi a chiedere questa guerra; la religione domina questa regione ed io come tanta gente detesto chi usa la religione per far politica sulla nostra pelle: musulmani, ebrei, cristiani. Con la mia età posso ricordare il Libano di prima della guerra civile. Era un posto unico, bellissimo dove cristiani e musulmani vivevano insieme”.
Le do ragione perché conobbi il Libano di quei tempi nel luglio del 1973 e vi rimasi per una decina di giorni, inviato dal settimanale Tempo. Un periodo sufficiente per poter, almeno in parte, conoscere il Paese, una fascia di 10 mila Kmq (quanto l’Abruzzo) stretta tra il Mediterraneo e la catena montuosa dei Monti del Libano.
Il titolo dell’articolo che scrissi fu “Col sorriso e il benessere il Libano evita la guerra”. La guerra, quella del Kippur, arrivò il 6 ottobre dello stesso anno quando Egitto e Siria attaccarono nel giorno della più importante festività ebraica.
Il Libano non fu toccato dal conflitto seppur confinante con la Siria a Nord e ad Est, con Israele a Sud. Ma i venti di guerra soffiavano anche sul piccolo Paese. La sede dell’Olp si era istallata a Beirut dopo che nel settembre del 1970 il re di Giordania, Hussein, aveva imposto con la forza all’organizzazione di Arafat di lasciare il Paese. Ad Amman intervenne l’esercito che attaccò i campi profughi e i miliziani dell’Olp. Quel conflitto, che provocò 10 mila morti prese il nome di Settembre nero e costrinse i profughi palestinesi a fuggire in Libano.
Una settima prima della mia visita un commando israeliano sbarcato di notte sulla spiaggia di Beirut raggiunse la sede dell’Olp con lo scopo di catturare o eliminare Arafat. Ci fu un breve scontro a fuoco, ma Arafat non c’era: forse avvertito, si era rifugiato altrove. In Occidente e all’Onu non ci furono reazioni sul fatto che Israele avesse violato i confini di un Paese neutrale.
Quando arrivai in Libano non riscontrai segnali di tensione: nell’aeroporto la solita tranquilla routine; al controllo un agente mi timbrò il passaporto sorridendomi e salutandomi con un “Bienvenue au Liban”.
Alloggiai in un bell’albergo vicino al favoloso Hotel Phoenicia che ospitava nelle suites i magnati dell’Arabia Saudita, i ricchi affaristi europei e americani, con vista sul Mediterraneo e sul porto turistico dov’erano attraccati panfili di gran lusso.
Il Phoenicia aveva ospitato due transfughi italiani: nel 1967 Felice Riva, il “re del tessile”, fuggito dopo la condanna a sei anni per bancarotta fraudolenta, e nel 2014 Marcello dell’Utri condannato dalla Cassazione per rapporti con la mafia e altro. Entrambi vennero estradati in Italia dalle autorità libanesi.
Il tassì mi portò dall’aeroporto all’albergo percorrendo la Corniche, un lungomare che non aveva niente da invidiare a quelli di Cannes e di Nizza. Passammo dalla Hamra, nel centro di Beirut, il corso pieno di negozi di lusso che, per la sua eleganza somigliava alla via Roma di Torino.
Davanti al mio albergo vidi con meraviglia parcheggiata una Alfa Romeo Giulia targata Milano. Apparteneva a una coppia di giovani sposi in viaggio di nozze che aveva percorso senza problemi Jugoslavia, Grecia, Turchia e Siria per arrivare in Libano. A quei tempi si poteva fare, come arrivare, sempre in macchina, in Iran e Afghanistan. Qualcuno lo faceva anche con l’autostop.
Quella libertà di viaggiare da quelle parti potrebbe apparire oggi come una delle favole di un moderno Le mille e una notte, difatti poco tempo i venti di guerra si trasformarono in cicloni che tornarono a portare morte e distruzioni.
Il conflitto del Kippur, dopo l’ultimo del ’67 accese la miccia che porterà nella regione anni ed anni di guerre.
Ma tornando a quel luglio del ’73, fui accompagnato in giro per il Paese, con altri colleghi, da Renata una giovane libanese che parlava benissimo l’Italiano.
Vidi il Casino du Liban elegante come quello di Montecarlo pieno di arabi che facevano grosse puntate, nonostante la loro religione lo vietasse.
Mi colpì moltissimo la favolosa Baalbek, nella valle della Bekaa, con le sue monumentali rovine che risalgono all’epoca romana e a periodi precedenti, come il tempio del dio Baal, eretto duemila anni prima di Roma dai Fenici, gli antenati dei libanesi.
Baalbeck, dichiarato nel 1984 dall’Unesco Patrimonio dell’umanità, ha subito gravi danni nel corso delle varie guerre che hanno colpito il Libano,. Vi hanno contribuito soprattutto gli aerei israeliani che la bombardarono nel 1982 e nel 2006.
Nel Tempio di Bacco, nel cuore di Baalbeck, uno dei siti archeologici più importanti e meglio conservati del Medio Oriente, si svolge ogni anno il Festival internazionale con spettacoli teatrali, di musica classica di opera lirica e di jazz, tranne ovviamente nei periodi di guerra. Quell’estate del ’73 fui spettatore di un’opera di Rossini.
Ma visitai anche luoghi meno “affascinanti”: un collega libanese insieme a un deputato socialista di etnia araba mi portarono nei campi di Tall el Zaatar e Sabra e Chatila, dove vivevano 400 mila profughi cacciati dalla Giordania. In quei luoghi lo splendore di Beirut era scomparso per lasciare il posto a baraccopoli simili alle favelas brasiliane. Per i vicoli giravano miliziani dell’Olp ben armati.
Dopo la nascita di Israele quei campi avevano ospitato gran parte dei palestinesi costretti a fuggire dallo Stato ebraico e che negli anni successivi si erano integrati nella società libanese.
I guai per il Piccolo Paese sono arrivati assieme alla seconda ondata dei profughi e all’insediamento dell’Olp con il suo “esercito”, una invasione di musulmani che ha condizionato la Costituzione libanese nata nel 1943.
Quell’anno il Libano – un Mandato francese dal 1919 – ottenne l’indipendenza. Durante la seconda guerra mondiale era sotto il controllo del governo di Vichy, ma con le pressioni della Gran Bretagna e della France Libre di De Gaulle il governatore si convinse a concedere l’indipendenza al Paese.
A quei tempi il Paese aveva appena 600 mila abitanti, il 40 per cento dei quali era di religione cristiano maronita, il trenta, arabo musulmana, il resto era costituito da cattolici della Chiesa di Roma, greco ortodossi, armeni, kurdi.
Quella fascia di terra che da secoli era appartenuta all’impero Ottomano, si era sempre distinta dal mondo arabo musulmano mantenendo forti contatti commerciali con le Repubbliche di Genova e Venezia che vi avevano insediato sedi commerciali e banche. Nei commerci si inserì anche Livorno, città e porto franco costruito dai Medici tra il ‘400 e il ‘500. Lungo uno dei canali della città vecchia esiste ancora un grande magazzino chiamato il fondaco dei libanesi.
L’Italia è rimasta sino ai nostri giorni il primo partner commerciale. I miei accompagnatori mi dissero che a Beirut vivevano da secoli ancora circa duemila famiglie con cognome italiano.
Tornando alla Costituzione dello Stato, questa fu redatta saggiamente sul principio che stabiliva la divisione delle massime cariche istituzionali tra i principali gruppi religiosi. Alle elezioni Il Presidente della Repubblica doveva essere un cristiano maronita; il Primo ministro un musulmano sciita; il Presidente della Camera un musulmano sunnita. Alle minoranze erano riservate cariche nei tribunali, nei ministeri e in altre istituzioni.
Ma negli Anni Settanta, quell’equilibrio venne messo in crisi dal grande afflusso di palestinesi e dall’Olp provenienti dalla Giordania. I musulmani diventati la maggioranza della popolazione facevano pressioni per ottenere più potere e la presidenza. Tra l’altro chiedevano un censimento che attestasse cambiamenti tra le etnie. i Cristiani filooccidentali per cultura e costumi (le lingue ufficiali erano l’arabo e il francese) consideravano i musulmani un pericolo per il Paese.
Inoltre la presenza dell’Olp era diventata politicamente più invadente.
Il risultato fu che Beirut e l’intero Paese si trasformarono in un campo di battaglia che il piccolo e inefficiente esercito non riuscì ad evitare. La scintilla della guerra civile scoccò quando il 13 aprile del 1975, mentre un gruppo di cristiani che partecipavano a una cerimonia davanti a una chiesa vennero colpiti da colpi di mitra sparati da un’auto di miliziani dell’Olp. Ci furono 4 morti e molti feriti.
La risposta arrivò poche ore dopo quando la Falange maronita, il gruppo armato dei cristiani, attaccò un autobus carico di membri dell’Olp e ne uccise 27. L’escalation delle vendette tra le due parti si trasformò in una guerra che non risparmiò la popolazione civile.
I massacri in larga scala iniziarono alla Quarantina, una baraccopoli musulmana della periferia di Beirut dove le milizie cristiane massacrarono 1500 musulmani. La rappresaglia palestinese fu compiuta nel quartiere cristiano di Damur con 500 morti.
Il tentativo di riportare la pace fu affidato dalla Lega Araba a un corpo di dissuasione siriano che peggiorò la situazione. Nel ’76 la Falange attaccò il campo profughi di Tall al Zaatar mentre i siriani che avrebbero dovuto proteggerlo guardavano dall’altra parte. Ci furono 10 mila morti.
Nell’82 vennero attaccati sempre dai falangisti quelli di Sabra e Shatila con altre 10 mila vittime. Allora il Libano era stato occupato quasi completamente da Israele, in risposta agli attacchi dell’Olp che lanciava missili in Galilea. Le truppe israeliane permisero che l’eccidio avvenisse.
Finalmente l’ONU decise di intervenire e inviò truppe multinazionali compresi i bersaglieri italiani comandati dal generale Angioni. Gli italiani lavorarono molto bene attirandosi il favore della popolazione dei due fronti contrapposti. Il ritiro di Israele avvenne poco dopo e la guerra civile terminò nel 1990.
Ci sarebbe molto altro da aggiungere sugli avvenimenti successivi sino ad oggi. Forse in una seconda puntata e non credo che la storia del Libano avrà un lieto fine.
Ettore Vittorini*
*Ettore Vittorini è esperto do politica internazionale. Ha lavorato al Tempo illustrati e poi al Corriere della Sera per oltre trent’anni. E’ stato corrispondente, inviato e infine vice caporedattore nel settore esteri.
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