Cornelia I. Toelgyes
6 settembre 2024
In Sudan si sta consumando uno dei peggiori disastri umanitari a memoria d’uomo, quasi totalmente ignorato dalla comunità internazionale. L’attenzione del mondo è per lo più concentrata sugli altri due grandi conflitti in atto: Russia–Ucraina e Israele–Striscia di Gaza. Peccato, perché vent’anni fa, il mondo si era indignato per la guerra in Darfur. Una mobilitazione di massa aveva costretto governi e istituzioni internazionali a agire. Oggi guardiamo dall’altra parte, come se la sofferenza di questo popolo non ci riguardasse.
A tutt’oggi non si vede uno spiraglio di pace all’orizzonte. La sanguinosa guerra, iniziata il 15 aprile 2023 tra i due generali, Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, leader delle Rapid Support Forces (RSF), e il de facto presidente e capo dell’esercito, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, ha costretto alla fuga quasi 11 milioni di persone. I morti non si contano più.
Entrambe le parti in causa hanno commesso abusi che potrebbero equivalere a crimini di guerra e le potenze mondiali devono inviare forze di pace e ampliare l’embargo sulle armi per proteggere i civili, ha dichiarato venerdì una missione di esperti su mandato delle Nazioni Unite.
Gli esperti in diritti umani, incaricati di indagare dalle Nazioni Unite, hanno chiesto l’invio di una “forza indipendente e imparziale” in Sudan e l’estensione dell’embargo sulle armi per proteggere i civili nell’escalation del conflitto. Secondo il team la situazione sta deteriorando di giorno in giorno.
Il gruppo, composto da tre esperti, nominato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU nell’ottobre 2023, ha riportato le prove di attacchi aerei e bombardamenti indiscriminati contro obiettivi civili, come scuole, ospedali e quant’altro.
Le RSF e le milizie alleate sono state accusate di aver commesso numerosi crimini contro l’umanità: omicidi, torture, schiavitù, stupri, schiavitù sessuale, abusi sessuali, persecuzioni su base etnica e di genere e sfollamenti forzati.
Gli esperti hanno anche chiesto di estendere l’embargo sulle armi dalla regione occidentale del Darfur all’intero Paese, sottolineando che la guerra cesserà quando terminerà il flusso di armi. Il team non ha fatto menzione dei Paesi che potrebbero essere complici dei crimini commessi sostenendo le parti in conflitto.
E’ risaputo che gli attori esterni in causa sono parecchi: EAU mandano munizioni e droni alle RSF, mentre Iran e Egitto armano SAF. Dal canto suo la Russia ha inviato i mercenari di Wagner e le forze speciali ucraine combattono accanto all’esercito di Khartoum contro i soldati di ventura di Mosca.
Finora i vari tentativi messi in campo per raggiungere un cessate il fuoco sono tutti falliti. L’ultimo in ordine di tempo, l’iniziativa di pace fortemente voluta dagli Stati Uniti, che si è tenuta a Ginevra (Svizzera) il mese scorso. Malgrado le pressioni esercitate dalla comunità internazionale, al-Burhan si è rifiutato di inviare una delegazione, mentre Hemetti – ex capo dei janjaweed – ha inviato una rappresentanza delle RFS.
Le autorità di Khartoum hanno contestato la presenza degli EAU, che – secondo loro – sostengono le RFS. Inoltre non hanno visto di buon grado che l’invito al convegno di Ginevra sia stato inviato alle forze armate sudanesi (SAF) e non al Consiglio sovrano.
Invece di annullare la conferenza, sono proseguiti i colloqui diplomatici con gli altri ospiti (Arabia Saudita e Svizzera) e gli osservatori (Egitto, Emirati Arabi Uniti, Nazioni Unite, Unione Africana).
Alla fine del meeting, il rappresentante di Washington per il Sudan, Tom Periello, ha annunciato la formazione del gruppo Aligned for Advancing Lifesaving and Peace in Sudan (ALPS), il cui fine è quello a ampliare l’accesso alle rotte umanitarie. L’iniziativa si concentra sulla creazione di un’azione internazionale congiunta per portare aiuti nei luoghi prioritari della catastrofe umanitaria che si sta consumando in Sudan.
Secondo Periello, grazie a questa iniziativa sono stati riaperti il valico di Adré lungo il confine con il Ciad e la strada di Dabbah che parte da Port Sudan per permettere ai convogli che trasportano beni di prima necessità a raggiungere la popolazione affamata. Inoltre le RSF hanno promesso di applicare un codice di condotta tra i suoi combattenti.
Intanto la guerra continua. Oltre la metà della popolazione è allo stremo e in alcune zone la mancanza di cibo uccide quanto bombe e pallottole. La fame è un’arma da guerra, antica quanto il mondo.
Pochi giorni fa il vice amministratore di USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale), Isobel Coleman, ha invitato la comunità internazionale e i membri della diaspora sudanese a intensificare gli sforzi per sostenere il popolo sudanese: “Non basta aumentare l’assistenza umanitaria, bisogna assolutamente far pressione ma anche per porre fine a questo violento conflitto una volta per tutte”.
Martedì è stato lanciato un altro appello alla comunità internazionale dal Consiglio Norvegese per i Rifugiati (NRC) e il Mercy Corps (un’organizzazione globale non governativa di aiuto umanitario): “Bisogna affrontare la terribile crisi della fame in Sudan”.
“Il silenzio è assordante. Mentre le persone muoiono di fame ci si concentra sui dibattiti semantici e definizioni legali”, ha sottolineato Mathilde Vu, portavoce di NRC ai reporter di Dabanga News. Eppure il ministro dell’Agricoltura sudanese, Abubakr El Bishri, nega qualsiasi segnale di carestia nel suo Paese. Ha persino respinto tutti i rapporti dell’ONU e di altre organizzazioni internazionali. Secondo il ministro tutti discorsi sulla carestia sono volti a far riaprire le frontiere con il solo scopo per contrabbandare armi e equipaggiamento militare per i ribelli e per far entrare forze straniere”.
“Le risorse ci sono, l’unico problema è il trasporto, vista l’insicurezza che vige in tutto il Paese, in particolare nelle aree controllate dalle RSF”, ha poi aggiunto El Bishri.
Cornelia I. Toelgyes
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