Un giornalista di Africa ExPress
è riuscito a entrare nella Striscia di Gaza
dal valico di Rafah con l’Egitto, e ha inviato
questa prima testimonianza
Jonah Levi
Dayr al-Balah, 17 agosto 2024
Quando si prova a chiudere la porta dell’auto del convoglio delle Nazioni Unite, ci si accorge di quanto sia pesante. E’ un mezzo blindato. Sfreccia tra la polvere dell’unico punto di accesso a Gaza. I droni volano di giorno e di notte, si sente il loro rumore ma non si vedono.
Prima della Salah al-Deen road, non c’è alcuna strada, ci sono pietre e polvere, che cercano di tracciare un cammino. Attorno solo desolazione. Ogni casa è violata, è ferita, è colpita, è bruciata, è crollata.
Il sole scalda la pelle mentre un intreccio di chilometri di muri, trincee, barriere metalliche, recinzioni e filo spinato circonda questa terra. Gaza è una maledetta prigione a cielo aperto, dove un intero popolo è stato confinato sotto una massiccia occupazione militare e al quale vengono somministrate dosi di tranquillanti, come aiuti umanitari, per prevenire l’implosione.
Contro la doppiezza occidentale a Gaza, bisogna imparare a parlare senza riserve, indipendentemente dalle restrizioni sulle voci filo-palestinesi. Annacquando il linguaggio, si aggira la censura e forse si guadagna maggiore credibilità e quindi spazio per essere ascoltati. Ma tutto questo girare in punta di piedi su quello che avrebbe dovuto essere un linguaggio chiaro sulla Palestina, ha un prezzo. Quando la verità è mascherata o nascosta, si apre lo spazio per inganni e mezze-verità.
Emarginando le voci palestinesi, l’Occidente ha perso la capacità di comprendere il contesto dietro la guerra a Gaza, di accettare o di gestire la propria parte di responsabilità e di svolgere un ruolo significativo nel porre fine alle atrocità.
Il risultato è un’inevitabile dissonanza cognitiva in cui i governi occidentali stanno violando le stesse regole che hanno creato, opponendosi alle leggi che hanno sancito e investendo in un genocidio, mentre criticano guerre altrove.
L’Occidente, così, non riuscirà mai a rivendicare una qualsiasi autorità morale, a recuperare la credibilità perduta o a costruire una fiducia duratura con il Sud del mondo. Perché la storia che racconta Israele non inizia mai un secondo prima che uno dei loro soldati venga ferito o che un razzo venga fagocitato dal complesso sistema antimissile, puntato perennemente su Gaza.
La cronologia degli scontri omette così le violenze ordinarie inflitte ai palestinesi, i controlli permanenti, l’occupazione militare, il blocco aereo, marittimo e terrestre di un territorio, il muro di separazione, la distruzione di case, famiglie, vite, la colonizzazione di terre.
Etichettare Hamas come la fonte dei guai della Palestina, nella logica della comunicazione, è brillante. Perché permette di presentare la lotta del povero popolo israeliano – per il diritto ad avere una terra in cui vivere e morire – contro l’aggressione terroristica di un’organizzazione religiosa messianica.
E’ con cenere, sangue e macerie che gli abitanti di Gaza tentano disperatamente di ritornare sulla mappa delle inquietudini globali e di ricordare la loro agonia a un mondo che li dimentica.
L’oppressione quotidiana prende posto sopra rovine e desolazione. Ancor più del parossismo di violenza rappresentato dal bombardamento di una popolazione prigioniera, essa mostra l’intoppo in cui è sprofondata la politica di occupazione israeliana, con la complicità attiva degli Stati Uniti e dei governi europei. Terrorizzare, destrutturare, ridurre alla dipendenza: il quadro è univoco.
Jonah Levi
jonah.levi@gmail.com
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