Kigali, Ruanda [photo credit France24]
Federica Iezzi
27 luglio 2024
A Kamonyi, in Ruanda, dopo un intenso lavoro, oggi verrà inaugurato il Giardino dei Giusti dell’Umanità. L’umurinzi, l’albero rosso, una pianta mistica della cultura ruandese, il cui nome in kinyarwanda significa custode della vita, sarà il grande protagonista e il simbolo del Giardino.
L’uso di un giardino, l’uso di un albero, l’atto di seminare, simboleggia la scelta della vita di fronte alla morte.
Ed è la stessa scelta che ha guidato il Ruanda, grazie all’incontro tra Fondazione Gariwo, Bene Rwanda Onlus e SEVOTA (Solidarité pour l’Epanouissement des Veuves et des Orphelins visant le Travail et l’Auto-promotion).
Primo nell’Africa sub-sahariana, il Giardino sarà memoria viva di donne e uomini che misero a rischio la propria vita per proteggere tutsi e hutu moderati durante il genocidio del 1994. Tra le priorità del progetto: insegnare ai giovani il valore dell’umanità, la solidarietà con le vittime dell’ingiustizia e la ricostruzione della memoria del genocidio.
Il Ruanda ha investito immensamente nella guarigione della società dal trauma del genocidio. Nonostante le apparenze esteriori di competenza o adattamento, i sentimenti interni di umiliazione, disumanizzazione e paura persistono con prepotenza.
Queste le prime speciali menzioni del progetto. Raphael Lemkin, giurista polacco, va a lui la paternità del termine genocidio e l’elaborazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, poi approvata dalle Nazioni Unite nel 1948. Pierantonio Costa, imprenditore e Console Onorario d’Italia in Ruanda, ha dato protezione a quasi 2.000 persone durante il genocidio. Maria Urayaneza, ha dato rifugio a tutsi e hutu moderati, mentre Kigali era cenere insanguinata dai massacri.
Sebbene il genocidio fu messo al bando negli anni quaranta, ci vollero decenni prima che la comunità internazionale ne imponesse il divieto. Nel 1994, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha creato un Tribunale Penale Internazionale sulla scia degli omicidi di massa commessi durante la guerra civile ruandese, in cui le milizie armate hutu sterminarono membri della minoranza etnica tutsi.
Il potere genocida in Ruanda contava sull’autorevole voce di radio e giornali ma soprattutto sul movimento di massa, composto in particolare da giovani, inattivi davanti alle vittime e all’intera popolazione. Un vero programma di sensibilizzazione all’odio.
Nonostante la legge sia chiara su ciò che costituisce un genocidio, lo standard legale per definirlo è così specifico che non è quasi mai applicabile alle uccisioni di massa o agli atti brutali perpetrati contro un gruppo. L’intento è molto difficile da determinare. La distruzione culturale non è sufficiente, né lo è l’intenzione di annientare un gruppo.
Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
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