Speciale per Africa ExPress
Federica Iezzi
17 luglio 2024
E’ solo l’ennesimo massacro in ordine di tempo quello di al-Mawasi. Più di 90 morti, almeno 300 feriti gravi, all’interno delle tende di un campo profughi. Questo l’agghiacciante bilancio.
Piccola fettina di terra costiera non lontana da Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, al-Mawasi oggi ospita una popolazione stimata di circa un milione di sfollati interni. Spostati da nord a sud, poi da sud a nord e ancora da nord a sud, gli abitanti sono privi di tutto e cercano di sopravvivere con una temperatura di 40 gradi, senza acqua potabile e con la malnutrizione nelle ossa.
Le Forze di Difesa Israeliane l’avevano dichiarata “safe zone”. Ma cosa significa? Niente è sicuro a Gaza. La parola d’ordine dei sionisti, “Stanare gli uomini di Hamas”, resta la perenne giustificazione di Israele all’uccisione di centinaia di civili.
Questa volta chi si voleva colpire? Arriva rapida e senza scrupoli la voce dura di Benjamin Netanyahu, in una conferenza stampa. I destinatari di missili e bombardamenti aerei erano il comandante del braccio armato di Hamas, Mohammed Deif, e il comandante senior della brigata Khan Younis, Rafa Salama. Netanyahu ha dato la sua benedizione affinché il capo dello Shin Bet – l’agenzia di sicurezza israeliana – effettuasse l’operazione dopo essersi assicurato che non c’erano ostaggi israeliani nella zona. Per i civili palestinesi invece nessuna premura.
Ancora una grave violazione da parte di Israele del Diritto Internazionale Umanitario. Ancora il non rispetto del principio di proporzionalità, contrapposto alla necessità militare, nei conflitti armati.
L’Egitto, mediatore nei colloqui per il cessate il fuoco, ha condannato l’attacco e ha criticato il “silenzio vergognoso e la mancanza di azione da parte della comunità internazionale”.
Ogni giorno Gaza è testimone del flagrante fallimento dell’obiettivo fissato nove mesi fa dal capo del governo israeliano, ovvero quello di “annientare Hamas”, movimento che non ha avuto difficoltà a reclutare al suo interno una fetta di popolazione palestinese determinata a reclamare giustizia per le violazioni subite.
Intanto in Israele crescono ogni settimana le manifestazioni contro l’estremismo cieco di Netanyahu. Mai negli ultimi anni nella nostra democrazia la questione del diritto, se non del dovere, di disobbedire è stata sollevata con così tanta intensità. Sentinelle della dignità, questi cittadini agiscono in nome di valori intangibili e immutabili.
Le nostre società stanno attraversando un periodo buio, l’umanità sembra avviarsi verso il vuoto. La nostra democrazia non è più semplicemente in crisi, ma si sta trasformando davanti ai nostri occhi in un regime sempre più autoritario, come atto preparatorio al peggio. Siamo arrivati ad un punto di intersezione cruciale. Quanti saranno coloro che, di fronte ad ordini illegali, preferiranno scendere nel campo dell’onore, piuttosto che estinguere definitivamente ogni forma di coscienza?
Le continue violazioni di regole e norme da parte dell’occupazione israeliana sono un duro colpo per i diritti umani e il silenzio può essere interpretato solo come condiscendenza nei confronti della potenza occupante.
Tutti dovremmo essere sorpresi dal silenzio assordante dell’Occidente, dalla mancanza di solidarietà dei leader dei Paesi arabi o dall’inquietante lontananza dei Paesi asiatici e nordafricani.
Per non turbare i sogni dei suoi alleati estremisti, Netanyahu continua a dire no al cessate il fuoco e ad un governo dell’Autorità Palestinese a Gaza e, per non perdere l’appoggio degli Stati Uniti e dell’opposizione israeliana, continua a dire no all’occupazione permanente. L’ambiguità mette in luce la portata della crisi. Risultato? Apertis verbis, una mancanza di strategia generale e una crescente spaccatura con la Casa Bianca.
Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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