Cornelia I. Toelgyes
18 giugno 2024
Dopo 14 mesi di guerra, oltre 12 milioni di sudanesi hanno lasciato le proprie case: di questi più di 9,9 milioni sono sfollati, mentre circa due milioni hanno cercato protezione nei Paesi limitrofi, per lo più in Ciad, Egitto e Sud Sudan, secondo l’ultimo rapporto di OIM (Organizzazione Internazionale per i Migranti). Non dimentichiamoci che dietro queste cifre ci sono persone, famiglie intere, bambini, che a causa del brutale conflitto tra le Rapid Support Forces, capeggiate da Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, e le Forze armate sudanesi (SAF) Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, presidente del Consiglio Sovrano e di fatto capo dello Stato, hanno perso tutto: casa, beni, parenti. Ciò che resta sono distruzione, fame e lacrime.
E’ risaputo che le RSF ricevono rifornimenti tramite Libia, Ciad e Repubblica Centrafricana. Ora arriva anche la conferma da parte degli esperti delle Nazioni Unite: i paramilitari di Hemetti (ex leader dei janjaweed, uomini a cavallo che violentavano le donne, uccidevano gli uomini e rapinavano i bambini) stanno pure reclutando miliziani di gruppi armati dal vicino Centrafrica.
Nel loro rapporto di venerdì scorso, il gruppo di esperti dell’ONU ha evidenziato che Am Dafok, al confine con la Repubblica Centrafricana (RCA), non è solo una linea di rifornimento per le RSF, ma anche un centro di reclutamento di nuovi miliziani pronti a combattere a fianco dei ribelli sudanesi. Già dall’agosto 2023 sono presenti combattenti di Front populaire pour la renaissance de la Centrafrique (FPRC).
Intanto El Fasher, capoluogo del Darfur settentrionale, è ancora al centro di sanguinosi combattimenti. Secondo Medici Senza Frontiera ormai non esiste più un luogo sicuro nell’intera area. Uomini armati entrano in città, sparando sulla popolazione. Sembra essere l’inferno sulla terra. Settimana scorsa Karim Khan, procuratore della Corte Penale Internazionale (CPI) ha lanciato un appello, chiedendo di testimoniare in relazione alle accuse di crimini commessi in Sudan, in particolare a El-Fasher.
Gli appelli contro l’assedio nel capoluogo del Darfur settentrionale si susseguono. Il 13 giugno scorso il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha adottato una risoluzione redatta dal Regno Unito, che chiede il ritiro immediato di tutti combattenti che minacciano la sicurezza dei civili. La proposta è stata votata da 14 dei 15 membri; sola astenuta: la Federazione Russa.
Il Consiglio di Sicurezza ha anche esortato i Paesi a astenersi da interferenze esterne, volte a fomentare il conflitto e l’instabilità, sottolineando inoltre che tutti gli Stati membri, nonché le parti coinvolte nella guerra, devono rispettare l’ embargo sulle armi.
Sia Iran, sia gli Emirati Arbi Uniti sono già stati accusati di aver violato le misure adottate dall’UNO. Con prove evidenti, il primo ha fornito droni alle forze governative, grazie alle quali hanno potuto riconquistare, tra l’altro, la sede dell’emittente di Stato a Khartoum. Mentre è risaputo che gli EAU hanno fornito materiale bellico alle RSF via il vicino Ciad (https://www.africa-express.info/2023/04/17/sudan-dal-ciad-arrivano-i-rinforzi-per-i-janjaweed-sostenuti-da-arabia-saudita-e-emirati/). Un rapporto in tal senso era già stato presentato da esperti in monitoraggio aereo al Consiglio di sicurezza del Palazzo di Vetro all’inizio di quest’anno. Gli EAU hanno sempre respinto queste accuse.
Intanto peggiora di giorno in giorno la situazione umanitaria nel Paese. Il conflitto è già costato la vita a migliaia e migliaia di sudanesi e sia l’ONU, sia le ONG avvertono da tempo che, secondo le stime, centinaia di migliaia di persone potrebbero trovarsi di fronte a carenze alimentari catastrofiche entro settembre.
Samantha Power, amministratrice di USAID (l’Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale), ha fatto sapere settimana scorsa che sono stati stanziati 315 milioni di dollari per aiuti urgenti per il Sudan, perché minacciato da una carestia di proporzioni storiche. La Power ha chiesto alle parti in conflitto di consentire l’accesso agli aiuti umanitari.
Mentre Linda Thomas-Greenfield, ambasciatrice statunitense presso le Nazioni Unite, ha dichiarato ai giornalisti: “Il mondo deve svegliarsi di fronte alla catastrofe che si sta svolgendo sotto i nostri occhi”.
E mentre la popolazione è in ginocchio e gran parte del Paese è in macerie, il governo sudanese ha concesso alla Russia di costruire una base navale a Port Sudan. La questione era già stata discussa anni fa tra Vladimir Putin e l’allora dittatore Omar al Bashir. In seguito le autorità di Khrtoum hanno congelato l’accordo bilaterale, perché a causa dell’instabilità politica il parlamento non è stato in grado di ratificare il trattato. (https://www.africa-express.info/2021/04/30/khartoum-sospende-accordo-bilaterale-con-mosca-per-costruzione-base-navale-a-port-sudan/)
Ora la base navale russa è tornata alla ribalta. Lo ha confermato anche l’ambasciatore sudanese accreditato a Mosca, Mohamed Siraj, durante un’intervista concessa a Sputnik all’inizio del mese. Mentre una decina di giorni dopo il viceministro degli Esteri russo, Mikhail Bogdanov, ha chiarito che sono in corso colloqui con il Sudan in merito a una potenziale base russa sul Mar Rosso, ma ha sottolineato che finora non è stato raggiunto un accordo concreto.
Bogdanov ha anche sottolineato che bisogna aprire urgentemente nuovi dialoghi per porre fine alle ostilità in Sudan.
Se Mosca e Khartoum dovessero raggiungere un’intesa per la base militare sul Mar Rosso, il Cremlino dovrebbe fare un importante cambiamento di rotta. Finora la Russia ha appoggiato le RSF capeggiate da Hemetti, giacchè il gruppo Wagner, molto vicino a Putin, aveva ottenuto diritti minerari per giacimenti auriferi, fonte di valuta estera per la Russia, sotto sanzioni occidentali dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022.
Secondo l’Institute for the Study of War con sede a Washington, in cambio di una presenza navale in Sudan, sembra che il ministro degli Esteri russo si sia impegnata a fornire supporto militare alle Forze armate sudanesi.
Cornelia I. Toelgyes
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