Federica Iezzi
11 giugno 2024
Nelle ultime settimane, gli attacchi indiscriminati e la devastante offensiva contro i rifugiati a Rafah, l’annuncio del riconoscimento dello Stato palestinese da parte di Spagna, Irlanda, Norvegia e Slovenia, poi la nuova proposta di cessate il fuoco avanzata da Washington, hanno ulteriormente aumentato la pressione su Israele, da parte delle capitali ritenute “amiche”, minacciando un isolamento diplomatico senza precedenti.
Joe Biden sembra aver capito che Netanyahu ha una visione dell’era post-Hamas molto diversa da quella immaginata dal Dipartimento di Stato.
Il “piano Biden” prevedeva la partecipazione all’amministrazione della Striscia di Gaza di un’Autorità Palestinese rinnovata e rafforzata e la ripresa di un processo negoziale tra Israele e Palestina. La posizione di Israele, al contrario, appare quanto mai chiara. Rifiuta qualsiasi ripresa dei negoziati con l’Autorità Palestinese e appoggia i suoi alleati fondamentalisti messianici, che desiderano apertamente rioccupare e ricolonizzare Gaza.
Il Primo Ministro israeliano, oggi, sembra contare solo su un’ipotetica vittoria – a novembre negli Stati Uniti – del suo sostenitore Donald Trump. Il che esporrebbe Israele e Palestina a una guerra di logoramento senza fine.
Sempre più forte risuona il ritornello – dei fautori dello scontro di civiltà – che promuove Israele come un bastione avanzato dell’Europa di fronte al mondo musulmano, una sorta di cittadella accampata in prima linea.
Ed è proprio lì che sprofondano le radici cristiane dell’antisemitismo. La persecuzione storica degli ebrei ha accompagnato l’affermazione di un’identità cristiana egemonica e omogenea, che ha oppresso l’alterità e ha legittimato il dominio.
Historia magistra vitae, scriveva Cicerone. Invece l’eredità del passato si presenta come un sinistro ribaltamento degli insegnamenti. Alla fine di quasi due millenni di persecuzione europea – di cui l’antigiudaismo cristiano è stato il carburante – gli ebrei, sia in Israele che nella diaspora, diventano lo scudo di una crociata anti-musulmana. Anche se ciò significa negare la pluralità del popolo palestinese.
Lo sappiamo fin dall’inizio. Netanyahu non ha mai smesso di dimostrare che il suo destino personale è più importante di quello del suo Paese. L’obiettivo della guerra non è tanto quello di distruggere Hamas – cosa che gli è stata utile per emarginare l’Autorità Palestinese – né quello di liberare gli ostaggi israeliani, quanto quello di sottrarsi ai procedimenti giudiziari, avviati nei suoi confronti per corruzione, frode e abuso di fiducia, e alle accuse della Corte Internazionale di Giustizia.
La risoluzione della più importante istituzione di giustizia mondiale rimarrà inascoltata finché Washington continuerà a sostenere militarmente Israele. I negoziati diplomatici impantanati sembrano incapaci di mettere a tacere le armi e trasudano invece un sentimento di enorme passività. Dunque, al momento rimane indisturbata la corsa a capofitto di Netanyahu per mantenere il potere.
Anche se Joe Biden, generoso fornitore degli arsenali israeliani, tenta – la campagna elettorale lo obbliga – di rendere Hamas responsabile della paralisi dei negoziati sul cessate il fuoco, non è sfuggito che Itamar Ben Gvir (leader del partito israeliano di estrema destra – Otzma Yehudit) e Bezalel Yoel Smotrich (leader della destra radicale israeliana – Partito Sionista Religioso), i principali alleati di Netanyahu, hanno minacciato di uscire dalla coalizione, cioè provocare la caduta del governo, se il primo ministro accettasse una tregua prima della completa distruzione di Hamas. Ci sono tutte le ragioni, dunque, per credere che Netanyahu abbia deciso di continuare la guerra per ragioni politiche.
Il terrore della guerra a Gaza ci coinvolge tutti. Come mondo, come Paese, come comunità, come individui. Ha deformato il continuum spazio-temporale in cui viviamo. E non opponendoci al disastro in atto, ne diventiamo complici involontari.
Come non sentire il terrore del popolo israeliano ferito già dalla storia con la perdita di centinaia di vite? Come non comprendere il popolo palestinese che rischia di essere cancellato dalle carte geografiche, umiliato per decenni da sottomissione e confinamento? Come non vedere che le responsabilità sono condivise, anche da parte della comunità internazionale, ma che le dimissioni di Benjamin Netanyahu sono una condizione essenziale per evitare l’irreparabile?
Bambini, rifugiati, operatori umanitari, malati: in assenza di un obiettivo di guerra realistico, non ci sono più limiti che trattengano Israele dalla sua spirale discendente. Una storia, una cultura, una memoria stanno scomparendo davanti ai nostri occhi. Quella che era stata annunciata come una guerra contro Hamas è presto diventata una guerra contro un popolo.
Non si arresta la mortale deriva verso il basso dei leader politici, dell’ipocrisia omicida di Hamas, dei crimini di guerra commessi dalle Forze di Difesa Israeliane, della complicità delle potenze occidentali, dell’inazione dei Paesi Arabi e dell’impotenza del Diritto Internazionale Umanitario.
Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
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