Federica Iezzi
3 Maggio 2024
A seguito di una causa intentata dal Sudafrica contro Israele, la Corte Internazionale di Giustizia, lo scorso dicembre, ha stabilito che esiste un “rischio reale e imminente” che Israele stia commettendo un genocidio contro i palestinesi sulla Striscia di Gaza.
Le implicazioni dell’ordinanza sono chiare per Israele, ma quali sono quelle per le multinazionali che intrattengono legami commerciali con Israele e per i Paesi in cui tali società hanno sede?
L’articolo 1 della Convenzione sul genocidio (1948) impone, agli Stati parte, il dovere di “impiegare tutti i mezzi ragionevolmente a disposizione” per prevenire e punire il crimine di genocidio. Ma cosa significa in pratica?
Come già affermato nella sentenza sul caso Bosnia-Erzegovina contro Serbia e Montenegro (2007), un fattore chiave nel determinare ciò che uno Stato deve fare è la sua “capacità di influenzare efficacemente le azioni di chi potrebbe commettere un genocidio”.
La forza e la profondità dei legami che uno Stato terzo ha con Israele, oggi, aiuta a determinare la capacità stessa di impedire atti di genocidio. Dunque, l’articolo 1 stabilisce un obbligo di sforzo, non di risultato.
Nel caso Bosnia-Erzegovina contro Serbia e Montenegro, la Corte Internazionale di Giustizia decretò che l’obbligo di prevenire il genocidio sorge “nell’istante in cui uno Stato viene a conoscenza dell’esistenza di un grave rischio di esecuzione di un genocidio”. Ecco che l’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia, attiva così l’obbligo per gli Stati terzi di intraprendere azioni preventive a Gaza.
E allora, come possono gli Stati terzi prevenire il genocidio, usando le loro relazioni commerciali ed economiche?
Come primo punto, attraverso il disinvestimento da società complici delle violazioni del Diritto Internazionale Umanitario da parte di Israele.
Ne è un esempio la Elbit Systems, il più grande produttore privato di armi in Israele e uno dei maggiori appaltatori della difesa israeliana. Dal lontano 2007, organizzazioni per la difesa dei diritti umani invitano gli Stati a sospendere i contratti con la Elbit Systems e a disinvestire i fondi pubblici dalla società, con sede ad Haifa.
Per rispettare l’articolo 1 della Convenzione sul genocidio, gli Stati devono adottare misure efficaci per impedire alle aziende, domiciliate nella loro giurisdizione, di essere coinvolte in atti di genocidio a Gaza e sanzionarle se lo fanno. Inoltre, i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani forniscono ulteriori indicazioni su come uno Stato d’origine – il Paese in cui è domiciliata un’azienda – può adempiere a questo dovere.
E ancora, nelle relazioni commerciali, ogni Stato fornisce quadri giuridici e istituzionali per la cooperazione economica con altre entità. I Paesi che intrattengono rapporti commerciali con Israele devono considerare queste relazioni come un mezzo ragionevolmente disponibile per prevenire il genocidio.
L’Unione Europea è il principale partner commerciale di Israele attraverso un flusso bidirezionale di beni, servizi e investimenti diretti. Questi legami possono essere efficacemente sfruttati per influenzare la condotta di Israele a Gaza. Le sanzioni economiche, compresi gli embarghi commerciali, sono strumenti chiave con cui gli Stati possono esercitare pressioni su partner commerciali e conseguentemente influenzare il comportamento di uno Stato.
Ne è un chiaro esempio la risposta ai crimini di guerra perpetrati dalla Russia in Ucraina. Dal marzo 2014, l’Unione Europea ha progressivamente imposto sanzioni alla Russia, progettate per indebolire la base economica del Paese, privandola di tecnologie e mercati critici e riducendo significativamente la sua capacità finanziaria.
In che modo le aziende potrebbero essere responsabili di complicità nel genocidio? La complicità aziendale negli atti di genocidio viene equiparata ad una relazione di “favoreggiamento”, dove il favoreggiamento si riferisce alla fornitura di sostegno fisico o materiale all’attore che commette un crimine internazionale.
Secondo l’organizzazione Oil Change International, le principali compagnie petrolifere, tra cui BP (British Petroleum), Chevron, ExxonMobil, Shell, Eni e TotalEnergies, sono coinvolte – attraverso le loro quote di proprietà o operazioni – nella fornitura di carburante a Israele.
Veicoli e carburante costituiscono una catena di approvvigionamento essenziale per le attività dell’aeronautica militare, delle forze di terra e della marina israeliane volte ad assediare e attaccare i palestinesi, che godono di uno status di protezione speciale ai sensi del Diritto Internazionale Umanitario, in tutta la Striscia di Gaza.
Altro esempio è il sistema di intelligenza artificiale Lavender, utilizzato da Israele per la campagna di bombardamento automatizzata in aree densamente popolate della Striscia di Gaza. La tecnologia fornita dalla società israeliana Corsight, per il riconoscimento facciale, è gestita direttamente dall’unità di intelligence militare israeliana 8200, autrice di Lavender.
E veniamo alle popolari piattaforme di social media come TikTok, Instagram, X, Facebook, WhatsApp e Telegram. Queste vengono utilizzate sia dai civili che dal personale militare israeliano per diffondere contenuti che potrebbero plausibilmente incitare al genocidio, alla disumanizzazione e alla violenza.
Il divieto del genocidio è una norma di ius cogens – un principio di diritto internazionale consuetudinario – così fondamentale per i valori della comunità internazionale, da non poter essere derogato da nessuna delle parti.
Se in un momento di lucidità, è stato necessario adottare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), si è indirettamente riconosciuto che se non incontrano ostacoli, gli Stati, le Nazioni e i popoli, possono diventare indifferenti all’umanità e, quindi, pericolosi e criminali.
Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
Twitter @federicaiezzi
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