Cornelia I. Toelgyes
14 aprile 2024
E’ passato un anno dall’inizio della guerra in Sudan, un conflitto che ha causato una devastante crisi umanitaria e ha riportato alla luce tensioni etniche e politiche esistenti da tempo.
Finora tutti tentativi di mediazione per fermare le ostilità tra i due generali, Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, leader delle Rapid Support Forces (RSF), gli ex janjaweed, e il de facto presidente e capo dell’esercito, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, sono falliti. E a nulla sono valsi i continui appelli da parte delle Organizzazioni internazionali per venire in aiuto alla popolazione, che è costretta ad assistere inerme alla distruzione del proprio Paese.
Eppure le organizzazioni per la difesa dei diritti umani e quelle impegnate nell’assistenza umanitaria continuano a lanciare appelli per un cessate il fuoco alle due fazioni in lotta. Ma inutilmente. Si continua a combattere e a spargere sangue.
In dodici mesi di lotta per il potere sono morte quasi 16 mila persone – cifra certamente sottostimata per la difficoltà di raccogliere dati accurati e in tempo reale – mentre gli sfollati sono oltre 9 milioni. I profughi, coloro che hanno cercato protezione nei Paesi confinanti, sono circa 1.500.000. Secondo le Nazioni Unite, il Sudan è oggi il Paese con il numero di sfollati più elevato al mondo e ben oltre la metà dei 45 milioni di abitanti del Paese soffre di grave insicurezza alimentare.
Il sistema sanitario del Sudan è al collasso; difficile controllare persino l’espandersi di malattie come il morbillo e il colera. Le agenzie umanitarie hanno affermato che l’esercito limita l’accesso agli aiuti umanitari e che quel poco che riesce a passare è a rischio di saccheggio nelle aree controllate dagli uomini di Hemetti.
E proprio in questi giorni Martin Griffiths, sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari, ha invitato la comunità internazionale ad “assumersi le proprie responsabilità” dopo un anno di conflitto devastante. “Come ho già detto, appena tre mesi dopo l’inizio del conflitto, il mondo non può ignorare l’eco dolorosa della storia. Ma in qualche modo abbiamo dimenticato l’indimenticabile. E le conseguenze di questo oblio sono imperdonabili”, ha sottolineato Griffith’s in un suo lungo comunicato.
Domani Parigi ospiterà un doppio evento incentrato sia sulla situazione politica del Sudan, sia su quello umanitario. La conferenza è stata organizzata in collaborazione con Francia, Germania e Unione Europea. Al meeting saranno presenti anche rappresentanti dei governi dei Paesi vicini, leader civili sudanesi e organizzazioni umanitarie internazionali, ma nessuna rappresentanza delle due parti in conflitto.
Il ministero degli Esteri di Khartoum si è opposto alla conferenza di Parigi e in un comunicato ha sottolineato di essere stupito perché sia stata organizzato un tale evento su una questione che riguarda il Sudan, senza consultazione o coordinamento con il governo del Paese e senza la sua partecipazione.
Dopo l’inizio dei combattimenti scoppiati il 15 aprile 2023 nella capitale del Sudan, la guerra si è estesa nel Darfur e in diverse altre zone, tra queste il Kordofan, il Nilo Blu e Merowe, città settentrionale vicina all’Egitto e al Nilo, dove si trovano importanti miniere d’oro e un aeroporto militare.
La guerra ha spinto il Darfur, già in ginocchio da conflitti mai risolti, in una posizione ancora più vulnerabile. Lì, le tribù arabe e non arabe, come i Masalit, hanno combattuto per le scarse risorse di terre e acqua per oltre 20 anni. Ora gli scontri hanno assunto una dimensione etnica.
Un sempre crescente numero di testimonianze e documenti ha paragonato gli attacchi attuali a una pulizia etnica, aggressioni perpetrate da milizie arabe insieme a membri delle RSF. Ovviamente i responsabili hanno negato tutte le accuse.
Come Africa ExPress ha documentato in diversi articoli, le RFS sono supportate oltre che dai mercenari russi di Wagner (ora African Corps) anche dagli Emirati Arabi Uniti e da Haftar (Libia).
Gli attori stranieri sono coinvolti nell’invio di armi in Sudan. Il New York Times, in un suo articolo del del 29 settembre scorso, ha affermato che gli Emirati Arabi Uniti stanno fornendo armi e assistenza sanitaria alle RSF da una base in Ciad.
E, giacchè la parte orientale della ex colonia italiana è controllata dall’Esercito nazionale libico (LNA) di Khalifa Haftar, i cui comandanti hanno stretti legami con le RSF e altri gruppi armati del Darfur, arrivano rifornimenti anche da lì. I consulenti delle Nazioni Unite, in un recente rapporto hanno identificato la Libia come fornitrice di armi, carburante e autovetture agli ex janjaweed. Mentre dall’autunno dello scorso anno forze speciali ucraine combattono accanto ai militari dell’esercito di al-Burhan.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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