Federica Iezzi
Larnaca (Cipro), 10 Aprile 2024
Durante il secolo scorso, il flagello dei genocidi è tornato come un’epidemia. Lo sterminio dimenticato dei Moriori, delle Isole Chatham, in Nuova Zelanda, ricorda che decine di popoli, nel corso della storia, sono stati metodicamente cancellati dalle carte geografiche.
Si comincia con l’Impero Ottomano che giustiziò 1.200.000 armeni, secondo un piano ideato dalle autorità ed eseguito da migliaia di carnefici civili e militari. Questa natura sistematica lo rende un genocidio indiscutibile. Nel 1975, a Timor Est, 200.000 abitanti furono massacrati dalle forze armate indonesiane.
Nello stesso anno e fino al gennaio 1979, il regime dei Khmer rossi in Cambogia, in nome del fuoco del razzismo sociale, uccise circa due milioni di persone. Poi le orribili pulizie etniche nei Balcani. E il secolo si conclude con un crepuscolo sanguinoso, con la “stagione dei machete”, nel 1994, in Rwanda. Quasi un milione di persone uccise. Uccise mentre le grandi potenze guardavano altrove.
Si potrebbe per un momento pensare che con l’evoluzione della morale e il progresso del diritto, con l’essenza dell’habeas corpus, con la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, con le Convenzioni di Ginevra e i Protocolli Aggiuntivi, le pratiche di sterminio sarebbero cessate. E no. Non è successo.
E a Gaza oggi ritorna l’onda sterminatrice. Il conflitto tra Israele e Palestina è iniziato con una terribile ingiustizia, commessa in Palestina, per ripararne un’altra, nata nell’orrore dei campi nazisti.
Sono passati 30 anni dal genocidio in Rwanda. Il percorso di onde e frequenze di Radio Télévision Libre des Mille Collines è ancora vivo nella carne dei sopravvissuti. Come si disegna un genocidio? La radio ha avuto un potere unico, incomparabile e terrificante, perché è stata capace di penetrare, senza alcun controllo, nell’intimità profonda degli individui. 1000 colline, come la chiamavano, era una emittente “trendy”, che aveva fatto della sua libertà di tono con espressioni insidiose, un marchio di fabbrica, da diffondere.
Il linguaggio disumanizzante che fuoriesce da Israele e da alcuni dei suoi sostenitori esteri, non è nuovo. Già sentito in altri tempi e in altri luoghi, ha contribuito a creare un clima in cui hanno avuto vita crimini terribili.
Coloro che hanno guidato e portato avanti il genocidio rwandese, definivano l’omicidio come un atto di autodifesa – se non lo facciamo noi a loro, lo faranno loro a noi.
I tutsi furono degradati a “scarafaggi”. Leader politici, militari e religiosi israeliani hanno in tempi diversi descritto i palestinesi come un “cancro”, come “parassiti”, e hanno chiesto che fossero “annientati”. Generazioni di studenti israeliani sono stati imbevuti dell’idea che gli arabi siano degli intrusi e siano semplicemente tollerati grazie alla beneficenza di Israele.
In Rwanda non c’è stata alcuna mobilitazione per fermare e prevenire ciò che stava accadendo. Ci si è illusi che fosse stata lasciata l’opportunità di imparare dalle atrocità viste. Non è necessaria una laurea in Letterature e Culture Comparate per interpretare segnali e dichiarazioni, nei discorsi mediatici e politici in Israele, che richiamano un uso esplicito della retorica genocida.
Trent’anni dopo, Emmanuel Macron rompe un tabù riconoscendo che la Francia non ha fatto nulla per impedire il genocidio in Rwanda. François Mitterrand, ex presidente francese, all’epoca ha sostenuto consapevolmente il genocidio contro tutsi e hutu moderati e ha offerto rifugio sicuro agli esecutori. La spada di damocle del genocidio rwandese, sospesa sopra le teste dei banyarwanda nella Repubblica Democratica del Congo, sotto forma di minaccia, oggi è reale.
Quale lezione ha lasciato la storia? Dal processo di Norimberga del 1945 l’opinione pubblica reclama la punizione dei colpevoli. Ecco non sfuggire alla giustizia.
Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
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