Sandro Pintus
4 aprile 2024
Il Consiglio dei ministri sudafricano ha detto basta agli allevamenti di leoni e rinoceronti. La settimana scorsa ha approvato la proposta presentata dal ministro dell’Ambiente, Barbara Creecy: chiusura delle strutture per l’allevamento di leoni.
Evidentemente le proteste dell’opinione pubblica interna e internazionale contro gli allevamenti di leoni del Sudafrica hanno avuto effetto. Il governo sudafricano ha deciso di chiudere la lucrosa industria che vende in pezzi il grande felino africano.
Vieta anche la caccia al leone in scatola (canned lion hunting) che qualcuno chiama “sport”. Pagando migliaia di dollari era possibile – dopo averlo drogato – “liberare” un leone dentro un recinto senza vie di fuga e fare tiro al bersaglio per portarsi a casa il trofeo.
Gli allevatori di leoni, però non ci stanno: minacciano azioni legali per la chiusura dell’industria. La South African Predator Association (Sapa) si prepara a una prova di forza legale contro le decisioni del governo.
Il presidente della Sapa, Hannes Wessels, non accetta che il governo rifiuti agli allevatori la possibilità di avere una quota di ossa di leone da poter vendere. È infatti una merce preziosissima per i mercati dell’estremo oriente che, polverizzata, è utilizzata per il Tiger-wine, un vino “ricostituente” venduto a 170 euro a bottiglia. Ha quindi messo la questione in mano agli avvocati.
Wessels, al quotidiano sudafricano Daily Maverick ha dichiarato, riferendosi al governo: “Sono un allevatore di leoni. Nessuno prende i miei leoni”. Per dare maggiore enfasi alla sua affermazione lo ha detto nella sua lingua, l’afrikaans (“Ek is ‘n leeuboer. Niemand vat my leeus nie”).
Un rapporto del ministero dell’Ambiente ha contato 7.838 leoni, 626 tigri e almeno 2.315 altri carnivori in cattività, tra cui ghepardi e serval. Il gruppo di lavoro ministeriale, operativo dal dicembre 2022, ha trovato tra le sbarre anche elefanti e rinoceronti.
Il trattamento riservato al “re della foresta”, ormai ex “sovrano” spodestato dalla dittatura degli allevamenti, ha scandalizzato il mondo occidentale ma non quello asiatico.
Il mercato del leone in pezzi è un business miliardario nell’estremo oriente e nel Sudest asiatico. I maggiori importatori sono Cina, Vietnam, Laos, Myanmar e Thailandia.
Del leone, come del maiale, nulla va sprecato. L’utilizzo delle parti del grande felino – che ha preso il posto della tigre ormai introvabile – è fondamentale nella medicina tradizionale cinese.
Nella conferenza stampa del 3 aprile la ministra Creecy ha indicato la chiusura degli allevamenti in due fasi. La prima prevede il coinvolgimento degli allevatori all’uscita volontaria per studiare insieme a loro i percorsi e le condizioni di chiusura degli allevamenti. La seconda programma l’acquisizione e incenerimento delle scorte di ossa di leone. Questo pare sia il materiale che gli allevatori vorrebbero tenete e poter vendere nei mercati orientali.
Ma è un iter lungo e complesso. Le condizioni sono che, prima che l’iter sia completato, i leoni vengano sterilizzati e che vengano rispettati i principi dell’uscita volontaria. Per salvaguardare i benefici della chiusura volontaria delle aziende durante questo lungo itinerario è vietato incrementare il numero di animali.
Dove andranno a finire i 7.838 leoni degli allevamenti? Sicuramente non potranno tornare in natura per il fatto che sono nati e cresciuti in cattività e soprattutto a causa della consanguineità genetica. I leoni sono animali sociali a cui un branco insegna a cacciare e a sopravvivere in sistemi aperti ragione per cui diventa difficile che sopravvivano. Inoltre molti sono in cattive condizioni di salute.
Il governo sudafricano sta valutando la possibilità di contattare i proprietari di leoni. Pagherebbe loro la consegna, l’eutanasia o la sterilizzazione dei 7.838 leoni di loro proprietà. Intende poi acquistare e bruciare i 3.163 scheletri ma potrebbe anche negoziare per lasciarne l’uso agli allevatori.
Inoltre, l’esportazione di animali africani selvatici viene permessa solo in habitat dei Paesi del continente africano.
Si prevede una lunga battaglia a suon di denunce e ricorsi. Un business che in due decenni ha soddisfatto i mercati dell’estremo oriente ma che è diventato controproducente per il turismo sudafricano.
Un rapporto scientifico del 2018 aveva rivelato che, in una decade, l’allevamento dei grandi felini in cattività avrebbe danneggiato il turismo per un valore di 3,6 miliardi di dollari.
Sandro Pintus
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