Massimo A. Alberizzi
17 marzo 2024
Il 25 marzo 1995 l’allora presidente americano Bill Clinton in visita a Kigali, la capitale ruandese, presentò pubbliche scuse per il mancato intervento per proteggere i civili durante il genocidio in Ruanda. Clinton disse più o meno: “La comunità internazionale, insieme agli Stati africani, deve farsi carico della sua parte di responsabilità per questa tragedia. Non abbiamo agito abbastanza velocemente dopo che sono iniziati i massacri. Non avremmo dovuto permettere che i campi profughi diventassero rifugi per gli assassini. Non abbiamo chiamato subito questi crimini con il loro nome: genocidio. Ma non possiamo cambiare il passato”.
Già, anche perché, agli inizi della carneficina nell’aprile 1994, i funzionari dell’amministrazione americana avevano ricevuto l’ordine di non parlare di genocidio, ma al massimo di dire che “potrebbero essersi verificati atti di genocidio”. Eppure, nell’aprile 1994, nei rapporti interni il governo USA (come rivelato dal New York Times) aveva più volte parlato di genocidio. Ma fino al giugno successivo, cioè alla fine della mattanza, non ha usato questa parola disumana.
Anche in occasione del genocidio in Ruanda per settimane la comunità internazionale di era arrovellata con interminabili discussioni sull’opportunità di intervenire per bloccare la carneficina. Discussioni spesso incentrate su cavilli giuridici, volti a nascondere interessi inconfessabili di questo o quel Paese, economici e/o politici.
In Palestina sta accadendo la stessa cosa. La mattanza è sotto gli occhi di tutti, eppure con sottigliezze sofistiche la comunità internazionale si rifiuta di definire i massacri con il nome più appropriato: genocidio.
Discutere accampando cavilli se il massacro che si sta consumando a Gaza sia un genocidio, una nuova shoa, una carneficina, uno sterminio o un macello diventa un esercizio tra filosofi ma non ha alcuna incidenza sulla realtà: la gente sta morendo a grappoli e non credo che a un moribondo palestinese interessi molto sapere se è vittima di un genocidio o di un massacro.
A noi giornalisti invece dovrebbe interessare svelare le menzogne che ormai sono diventate a pieno titolo un’arma di guerra. La propaganda già dai tempi dei romani viene utilizzata dai combattenti (e in generale dalla politica!) per cercare di vincere battaglie e conflitti. Ma il nazismo (e segnatamente il suo ministro della propaganda Joseph Goebbels) l’ha fatta diventare una scienza.
Nella guerra di Gaza siamo bombardati da notizie da una parte e dall’altra e devo confessare che non è facile districarsi tra frottole e informazioni autentiche. Uno degli insegnamenti della propaganda del Terzo Reich spiegava come fare diventare una bugia verità: “Se racconti una menzogna enorme e continui a ripeterla, prima o poi il popolo ci crederà.”
Questo principio è stato applicato alla perfezione dallo Stato ebraico. Infatti, nell’immaginario collettivo è diventa verità l’assioma: “Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente, perché si vota, c’è una stampa libera e una pubblica opinione”.
Volutamente ci si “scorda” di aggiungere che questi “privilegi” democratici sono riservati solo a una parte della popolazione, quella cui Dio ha riservato un posto più elevato nella storia e che ha diritto all’autodeterminazione (come spiega all’articolo 1, il punto B della Legge Fondamentale, cioè la Costituzione, del Paese mediorientale).
1 — Basic Principles
Qui tradotto in italiano:
1 – Principi fondamentali
Basare uno Stato su questi presupposti razziali è piuttosto illiberale e anche antidemocratico.
Anche durante il regime razzista sudafricano le elezioni erano libere, si potevano creare partiti ed esistevano giornali che criticavano apertamente il regime. Ma i “privilegi” democratici erano riservati solo ad una parte della popolazione, quella bianca. Nessuno, dunque, si è mai sognato di definire quella sudafricana una democrazia dell’Africa meridionale.
Ma c’è qualcosa d’altro di più subdolo che colpisce l’opinione pubblica l’identificazione dell’antisionismo con l’antisemitismo. Una simmetria che viene ripetuta come un mantra: “Chi critica lo Stato di Israele odia gli ebrei, è complice del nazismo ed è antisemita.”
Goebbels scriveva: “La verità è il nemico mortale della menzogna e quindi la verità è il più grande nemico dello Stato.” La verità è che il sionismo, comunque lo si può intendere è una dottrina politica che può essere condivisa o disapprovata. L’antisemitismo è invece un sentimento di odio irrazionale direi quasi selvaggio verso gli ebrei. Criticare il sionismo diventa automaticamente una manifestazione di antisemitismo. Come se chi condanna il nazismo fosse inconsapevolmente antitedesco o il fascismo anti-italiano.
E’ una simmetria irresponsabile perché provoca irrimediabilmente una reazione antisemita. Per fortuna non tutti gli ebrei sono sionisti e quindi questo dimostrerebbe come l’equazione “sionismo uguale ebraismo” sia profondamente sbagliata. Anzi pericolosa perché genera irresponsabili e sconsiderati sentimenti antisemiti.
Il problema è che sono molti – e non solo ebrei – che continuano a difendere acriticamente lo Stato d’Israele e la sua discutibile politica. Chiudendo un occhio, e spesso entrambi, davanti ai massacri che vengono perpetrati da Israele nella Striscia di Gaza. Questo atteggiamento “filo israeliano a tutti i costi” trova sempre una scusante alla politica sionista e provoca danni profondi allo stesso Stato di Israele e soprattutto alla pace nella regione.
Spesso è accaduto che le scusanti addotte siano ridicole e palesemente false come quando qualche giorno fa i soltati israeliani hanno sparato addosso alla folla contro un gruppo di persome in fila per ricevere gli aiuti. Si sono ammazzati da soli calpestati nella calca. A nulla sono valse le testimonianze e le immagini dei morti e feriti colpiti dai proiettili.
La propaganda israeliana raccolta da molti quotidiani, specie italiani, hanno scritto imperturbabili che i palestinesi sono morti per colpa loro.
Ogni volta che si contesta ad Israele qualcosa arriva immediata una giustificazione che ribalta le responsabilità: “L’ospedale che avete bombardato era pieno di malati”. “Sì, ma nei sotterranei si nascondeva una base di Hamas”. “Avete ucciso migliaia di civili inermi.” “Colpa di Hamas che li usava come scudi umani”. ”Avete colpito e distrutto interi quartieri; ammazzato donne e bambini”. “Gli avevano avvisati di andare via”.
Negare, negare, negare sempre anche l’evidenza, insegnava Goebbels. E la sua dottrina ha fatto proseliti.
Perfino David Ben Gurion, considerato il padre dello Stato di Israele di domandava: “Ci sono stati l’anti-semitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma loro [gli arabi] in queste tragedie cosa c’entravano? Essi vedono una sola cosa: siamo venuti e abbiamo rubato il loro Paese. Perché dovrebbero accettarlo?”
E Primo Levi il grande narratore della shoa aveva ammonito: ““Ognuno è ebeo di qualcuno… oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele.”
L’osservatore e analista politico americano Richard Cohen ha descritto bene la situazione giocando con le parole: “Il più grande errore che Israele possa compiere è dimenticare che Israele stesso è un errore . È un errore onesto, un errore frutto di buone intenzioni. Un errore per il quale nessuno è colpevole ma l’idea di creare una nazione di ebrei europei in un’area di arabi musulmani (e di alcuni cristiano) ha prodotto un secolo di guerra e terrorismo della specie che stiamo ora osservando.”
Al contrario Benjamin Netanyahu ribadisce che l’occupazione israeliana di territori non suoi è permanente e proclama: “Gerusalemme è la capitale di Israele e non sarà mai divisa; rimarrà la capitale dello Stato di Israele, la capitale del popolo ebraico per i secoli dei secoli”. Una affermazione pesante che appare più una dichiarazione di guerra e non una proposta di pace.
Ma nell’immaginario collettivo resta stampato il concetto radicale che viene ripetuto. E’ Hamas che non vuole la pace e Israele è costretto continuare la guerra.
Eppure, Ben Gurion aveva ammonito “I villaggi ebraici sono stati costruiti al posto di quelli arabi. Voi non li conoscete neanche i nomi, e io non vi biasimo perché i libri di geografia non esistono più. Non soltanto non esistono i libri, ma neanche i villaggi arabi non ci sono più. Nahlal è sorto al posto di Mahlul, il kibbutz di Gvat al posto di Jibta; il kibbutz Sarid al posto di Huneifis; e Kefar Yehushua al posto di Tal al-Shuman. Non c’è un solo posto in questo Paese che non avesse prima una popolazione araba.”
Ecco perché il ruolo dei media diventa cruciale in questa guerra ed ecco perché Israele non ha alcuna intenzione di fare entrare i giornalisti nella Striscia. Un comportamento in stridente contrasto con il mantra secondo cui il Paese ebraico è l’unica democrazia della regione e che il genicidio in atto a Gaza non è tale perché non è provata una volontà di cancellare una razza, una religione e/o un’etnia. Distinzioni nominalistiche che non cancellano la disumanità dei massacri sistematici in atto a Gaza.
Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
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Bellissimo articolo! Semplice, brutalmente onesto, dritto al punto