AFRICA

Le armi all’uranio impoverito usate in Somalia hanno provocato tumori e morte a soldati, anche italiani

Speciale per Africa ExPress
Gianni Avvantaggiato
11 Marzo 2024

Oggi, solo in Italia, sono 400 i militari morti a causa dell’uranio impoverito e altri 8mila sono ammalati in maniera grave. Ma è solo durante i bombardamenti NATO, nella ex Jugoslavia del 1999, che i reparti italiani scoprono il pericolo del DU (Depleted Uranium, in inglese), quando vengono diffuse le norme di protezione destinate ai militari nei Balcani.

Operazione IBIS, Somalia

Tuttavia i nostri soldati, del tutto inconsapevoli, ne conoscevano le conseguenze già qualche tempo prima, nel 1992, per la precisione, quando partecipano in Somalia all’operazione multinazionale (quella italiana si chiamava Ibis) a fianco degli USA. Gli americani guidano la coalizione internazionale – UNITAF, Unified Task Force – composta da tredici nazioni.

Il Paese del Corno d’Africa, che sotto il regime dispotico del generale Mohamed Siad Barre dal 1969, versa in una grave crisi umanitaria, nel 1991 sprofonda in un lungo periodo di guerra civile. Il dittatore fugge e il Paese è sconvolto da una violenta carestia e sprofonda in una catastrofico conflitto tra clan, seminando morte e distruzione.

“L’Italia è sicuramente responsabile delle lotte tribali e del genocidio in Somalia”, commenta Francesco Rutelli, al corrispondente americano a Roma del Washington Post, Wolfgang Achtner. L’ex deputato del partito ambientalista dei Verdi ha svolto un ruolo di spicco nel denunciare quello che è diventato uno grosso scandalo in Italia.

I fatti, dimostrano che l’agonia della Somalia trova le sue radici anche nella diffusa corruzione nel nostro Paese. Nel corso degli anni ’80, infatti, politici e uomini d’affari italiani hanno utilizzato la Somalia come terreno di gioco per enormi progetti economico-finanziari che poco hanno fatto per aiutare la popolazione africana. Anzi, hanno effettivamente danneggiato la ex colonia.

“La realtà del cinico ruolo dell’Italia in Somalia – scrive Achtner in suo articolo di quegli anni – è evidente dai documenti resi disponibili al Parlamento dal ministero degli Affari Esteri italiano. Essi mostrano che l’Italia (presidente del Consiglio è Bettino Craxi, ndr) ha sponsorizzato 114 progetti in Somalia tra il 1981 e il 1990, spendendo oltre un miliardo di dollari. Con poche eccezioni (come un programma di vaccinazione realizzato da organizzazioni non governative), le iniziative italiane erano assurde e sprecone”.

Roma che cerca attivamente di consolidare la sua presenza e influenza in Africa, dà il via al coinvolgimento italiano nella missione internazionale che inizia nel dicembre del 1992. Soldati della Marina, dell’Aeronautica e paracadutisti della Folgore, ritornano sul suolo somalo dopo la fine della II Guerra Mondiale.

Proprio i paracadutisti della Folgore hanno il battesimo del fuoco il 2 luglio del 1993 a Mogadiscio. I parà si scontrano duramente con i miliziani dell’Alleanza Nazionale Somala, il clan di uno dei signori della guerra, il generale Mohamed Farah Aidid.

Checkpoint Pasta Mogadiscio, Somalia

I nostri soldati durante un rastrellamento nella zona del al cosiddetto “Checkpoint Pasta”, un posto di blocco nei pressi di un pastificio della Barilla dismesso, vengono attaccati dai miliziani

La missione internazionale nel maggio 1993 era passata sotto l’egida dell’ONU e aveva preso il nome di UNOSOM (United Nation Operation in Somalia)

Durante l’operazione internazionale, dal 1992 al 1994, gli americani, in Somalia come nel 1991 nel Golfo, usano una grossa quantità di armamento all’uranio impoverito per cui il 14 ottobre 1993 l’Headquarters Department of the Army-Office of the Surgeon General emana le linee guida relative all’esposizione al DU. Il documento precisa in maniera chiara che l’esposizione dei soldati all’uranio impoverito, sia attraverso l’inalazione sia per ingestione, provoca un possibile incremento del rischio di sviluppare il cancro.

Uranio impoverito

Ma già nel 1984, la NATO aveva emesso direttive dettagliate a tutti gli Stati membri in merito ai militari esposti all’UI. Direttive che il nostro governo fa finta di ignorare.

In una lettera pubblicata su Embedded Agency, l’avvocato Giuseppe Frate descrive la drammatica testimonianza del maresciallo Marco Diana dei Granatieri di Sardegna, a Mogadiscio per l’Operazione Ibis: “I missili lanciati dai loro elicotteri – racconta Diana – sollevavano enormi nuvole di polvere bianca. Quella polvere ci avvolgeva e noi la respiravamo. E ridevamo degli americani che poi scendevano sul campo avviluppati in tute che li facevano sembrare dei marziani. Ridevamo e non sapevamo che stavamo respirando un veleno che ci uccideva. Loro non avevano un lembo di pelle scoperta, noi eravamo in pantaloncini corti e a petto nudo. I nostri comandanti, quando andavamo a chiedere spiegazioni, definivano il loro abbigliamento “americanate”.

Il fuoco amico, che poi tanto amico non è (e neppure tanto fuoco perché è un killer invisibile) colpisce Marco Diana. L’esposizione agli effetti del munizionamento all’Uranio Impoverito gli causa un tumore al sistema linfatico.

Dopo l’imboscata al Checkpoint Pasta, ai militari italiani viene ordinato di non attraversare più il centro di Mogadiscio ma di girare intorno alla città, per raggiungere altri posti di controllo. Il nuovo percorso, però, passa per un’area che gli americani utilizzano per esercitarsi con le armi all’UI. “Ogni volta che passavamo per di là – riferisce il granatiere – la pelle si ricopriva di polverina bianca. Bruciava come se avessimo il corpo colpito da migliaia di punture di spilli. Non passava nemmeno dopo aver fatto la doccia”.

Capo Teulada, Sardegna

Non solo. Al suo rientro in Italia, Diana presta servizio al poligono di Capo Teulada in Sardegna, dove le truppe alleate si esercitano con armamento Depleted Uranium che hanno in dotazione. L’effetto del DU è lo stesso che nei teatri di guerra.

Marco Diana muore l’8 ottobre 2020 a causa dell’Uranio Impoverito, dopo anni di sofferenze e di lotta contro lo Stato, che aveva servito con onore. Il governo lo risarcisce ma non gli riconosce la causa di servizio per il nesso di causalità tra la sua patologia e l’esposizione all’UI, che è quello che Diana voleva, non per sé: “Non è una lotta personale – è la frase che lo ha sempre contraddistinto – ma è quella di tutti i servitori dello Stato che si sono ammalati nell’assolvere il loro dovere”.

Marco Diana

Falco Accame, l’ammiraglio che era stato eletto in parlamento, aveva commentato così la sentenza del 17 dicembre 2008 del Tribunale di Firenze Sezione II Civile, che ha definito storica: “Il parere del Consulente Tecnico, così come evidenziato dalla sentenza, rileva che la malattia manifestata dal militare (Gianbattista Marica, ndr) e meglio identificata come linfoma di Hodgkin, sia inequivocabilmente causalmente legata all’esposizione del soggetto all’Uranio Impoverito”.

Gianni Avvantaggiato
gianni.avvantaggiato@libero.it
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Redazione Africa ExPress

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