Federica Iezzi
29 Febbraio 2024
Il sistema politico e sociale di Israele è davvero quello di una democrazia? Sulla base di un concetto minimalista di democrazia, che si limita a pochi criteri fondamentali come la libertà di espressione e il diritto di voto, Israele è una democrazia entro i confini del 1949.
Infatti il Paese non è cambiato molto da allora. Né nella definizione di sé, né nel modo in cui tratta i palestinesi. Non comprendere questo equivale ad approvare tacitamente le politiche violente e coloniali nella Palestina occupata, negli ultimi 75 anni. Se dobbiamo credere che oggi la “democrazia” esclusivista di Israele sia in qualche modo una democrazia, allora siamo giustificati anche nel credere che il governo Netanyahu non sia né meno né più democratico dei precedenti governi dello Stato.
Alle nostre latitudini non è difficile sentir definire Israele come “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Eppure l’opinione pubblica lo descrive, sempre più spesso e a gran voce, come una “democrazia imperfetta” o come “uno Stato con segregazione simile all’apartheid”.
In un rapido excursus storico, prima del 1967, Israele sicuramente non avrebbe potuto essere definito come una democrazia. Lo Stato sottoponeva un quinto della sua cittadinanza a un governo militare basato sulle rigorose norme del mandato britannico, che negavano ai palestinesi qualsiasi diritto umano o civile. Solo alla fine degli anni Cinquanta emerse una forte opposizione ebraica agli abusi obiettivi, allentando in parte la pressione sui cittadini palestinesi.
I governatori militari israeliani, nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, possono ancora oggi elaborare leggi speciali, distruggere case e mezzi di sostentamento, recludere in prigione senza processo.
La prova decisiva di ogni democrazia è il livello di tolleranza che è disposta ad estendere verso le minoranze che la abitano. Appare dunque evidente come la sottomissione delle minoranze in Israele non è democratica.
Israele assicura una posizione di superiorità alla maggioranza ebraica, ad esempio attraverso le leggi sulla cittadinanza, le leggi sulla proprietà fondiaria e la legge sul ritorno.
Quest’ultima garantisce automaticamente la cittadinanza a ogni ebreo nel mondo, ovunque sia nato. Pratica palesemente antidemocratica, visto che la legge è stata accompagnata al totale rifiuto del diritto al ritorno dei palestinesi, al contrario riconosciuto a livello internazionale dalla risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948.
La pretesa di essere una democrazia è discutibile anche quando si esamina la politica di bilancio, relativa alla questione fondiaria. Dal 1948 i comuni palestinesi hanno ricevuto finanziamenti molto inferiori rispetto ai loro omologhi israeliani.
Oggi più del 90 per cento della terra è di proprietà del Fondo Nazionale Ebraico. Ai proprietari terrieri non è consentito effettuare transazioni con cittadini non israeliani, e il terreno pubblico ha la priorità d’uso in progetti nazionali, il che significa aprire le porte alle illecite espropriazioni palestinesi e ai continui insediamenti israeliani, con un conseguente vero e proprio cambiamento demografico. La Corte Suprema israeliana è riuscita a mettere in discussione la legalità di questa politica solo in alcuni casi individuali, ma non come linea di principio.
I politici israeliani sono determinati a mantenere in vita l’occupazione militare finché lo Stato rimane intatto. Fa parte di ciò che il sistema politico israeliano considera lo status quo.
L’occupazione non è democrazia. Quando si guarda al dibattito tra i partiti di destra e di sinistra in Israele su questo tema, i loro disaccordi riguardano come raggiungere questo obiettivo, non sulla sua validità.
Ma quali sono stati i metodi adottati dal governo israeliano per gestire i territori occupati? Inizialmente l’area era divisa in spazi arabi e spazi ebraici. Le aree densamente popolate da palestinesi vennero definite “autonome”, di fatto sono rimaste sotto il controllo del governo militare israeliano. Gli spazi ebraici invece furono colonizzati con insediamenti e basi militari. Questa politica aveva il chiaro scopo di lasciare la popolazione palestinese, sia in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, sia nella Striscia di Gaza, in enclavi sconnesse, senza alcuna possibilità di espansione urbana.
Le élite politiche occidentali continuano a trattare Israele come un membro del club esclusivo degli stati democratici. I palestinesi e i loro alleati arabi sono stati in gran parte coerenti nel riconoscere l’estremismo nei successivi governi israeliani, ma quale scusa ha la Comunità Internazionale per non riconoscere che l’ultimo governo guidato da Netanyahu è il più grande Stato di occupazione?
Federica Iezzi
federicaiezzi@hotmail.it
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