Eric Salerno
17 febbraio 2024
Fadi Jamjoun aveva quaranta anni. Era nato e cresciuto nel campo profughi palestinese di Shuafat, incastrato tra la città santa – Gerusalemme – e l’insediamento israeliano di Pisgat Zeev, una delle tante colonie illegali secondo il diritto internazionale.
Il luogo dove viveva o sopravviveva fu fondato dall’UNRWA nel 1965 per rispondere alla richiesta del governo giordano di fornire alloggi alle circa 500 famiglie di rifugiati che vivevano nel sovraffollato campo profughi di al-Mu’askar, nella Città Vecchia di Gerusalemme. Era, Jamjoun, a giudicare dalla sua foto postata su un sito palestinese, un uomo dedito alla religione. Ieri, da solo, è sceso da una vettura con targa israeliana a una fermata degli autobus a Kiryat Malachi, non lontano da Ashdod, una città israeliana poco a nord di Gaza, e ha sparato contro quelli che aspettavano l’autobus. Due persone sono morte, altre tre o quattro ferite. E lui è stato ucciso da un giovane colono che si trovava sul posto e che era armato.
Dopo le ambulanze e le forze di sicurezza israeliane, si è precipitato sul posto il ministro della Sicurezza nazionale, l’estremista di destra Itamar Ben-Gvir, che tra le altre cose sostiene che bisogna rioccupare Gaza e impiantare nuove colonie ebraiche quando sarà finita la guerra. “Questo attacco dimostra ancora una volta che le armi salvano vite umane. Questo mese, ci sono state tutti i tipi di critiche su di me. Non solo non cederò alle critiche, ma amplierò la nostra politica per incoraggiare i cittadini di Israele a portare le armi”. E ha aggiunto: “È così che dovrebbe essere a Gaza, è così che dovrebbe essere in Libano, è così che dovrebbe essere ovunque. Risposta audace, tolleranza zero, guerra fino alla distruzione. Distruggiamoli”.
Poche ore prima la stampa americana aveva mostrato una serie di foto satellite per raccontare come l’Egitto stia creando un campo vicino al suo confine con Gaza, come contingenza per un potenziale esodo di palestinesi dall’enclave se Israele dovesse andare avanti, come appare sempre più probabile, con un’offensiva di terra su Rafah, la regione di confine dove più della metà della popolazione di Gaza si sta rifugiando.
L’Egitto ha ufficialmente negato di aver fatto tali preparativi. Una affermazione in linea con la posizione pubblica ufficiale di essere veementemente contrario allo spostamento dei palestinesi fuori da Gaza. Le prove fotografiche indicano, però, che il primo Paese ad aver firmato un accodo di pace con lo Stato ebraico – nell’ormai lontanissimo 1979 – si sta attrezzando rapidamente per bloccare il probabile esodo da Gaza. Il New York Times ha confermato il contenuto delle immagini e ha parlato con gli appaltatori del sito, che hanno affermato di essere stati assunti per costruire un muro di cemento armato altissimo intorno all’appezzamento di terreno – cinque chilometri quadrati – nel Sinai vicino al confine di Gaza.
Da più di una settimana i leader di Hamas e di Israele, tramite americani, europei, arabi stanno negoziando al Cairo per concordare uno scambio ostaggi-prigionieri, per una tregua o fermare la guerra. Tra gli uni e gli altri non sembra che vi sia molto spazio per un’intesa, anche se Washington manda segnali positivi. Forse nel tentativo di trascinare il dialogo a ridosso delle feste islamiche del Ramadan, quando Netanyahu avrebbe promesso di concludere o sospendere i combattimenti. Proprio ieri, però, Benny Gantz, ex capo di stato maggiore e uno dei suoi ministri della strana coalizione di estrema destra, è tornato a minacciare: se Hamas non accetta subito i termini per uno scambio, le forze armate israeliane attaccheranno Rafah “anche se sarà tempo di Ramadan”. Della popolazione di Gaza, delle famiglie palestinesi accampate nella città a ridosso del Sinai egiziano non ha parlato. Ormai nessuno sembra essere capace, o volere, costringere Israele a fermare il suo micidiale assalto alla zona in cui si è spostata parte notevole della popolazione della Striscia.
E, così, il presidente al-Sisi avrebbe deciso: non sparare sui palestinesi per respingerli a morire a Gaza, ma accoglierli come animali in un grande corral da far-west, cemento invece di reticolato di legno o filo spinato. Un altro campo profughi con capacità, dicono i tecnici che stanno lavorando nel Sinai, per centinaia di migliaia di persone. Saranno accolte nelle tende che si stanno scaricando e che devono rapidamente allestire. Una soluzione provvisoria, con le solite garanzie americane, come dovevano essere provvisori i 58 campi situati in tutta la Palestina e nei paesi vicini. Oggi ci sono 2,3 milioni di rifugiati palestinesi in Giordania, 1,5 milioni di rifugiati a Gaza – ossia il 70 per cento dei residenti nella Striscia, 870.000 rifugiati nella Cisgiordania occupata, 570.000 rifugiati in Siria e 480.000 rifugiati in Libano.
Secondo il diritto internazionale, i rifugiati hanno il diritto di tornare alle loro case e alle loro proprietà da cui furono cacciati. Molti palestinesi dicono di sperare ancora di tornare in Palestina. Alle loro case e terreni in Israele, o almeno in uno Stato palestinese che fu promesso loro molte volte.
Eric Salerno
Eric2sal@yahoo.com
X: @africexp
Dal Nostro Corrispondente di Cose Militari Antonio Mazzeo 20 novembre 2024 Nuovo affare miliardario della…
Speciale per Africa ExPress Costantino Muscau 19 novembre 2024 "Un diplomatico francese sta rubando i…
Speciale Per Africa ExPress Eugenia Montse* 18 novembre 2024 Cosa sapeva degli attacchi del 7…
Speciale per Africa ExPress Cornelia I. Toelgyes 18 novembre 2024 Un tribunale di Pretoria ha…
Speciale per Africa ExPress Sandro Pintus 17 novembre 2024 Continua in Mozambico il braccio di…
Dal nostro Inviato Speciale Massimo A. Alberizzi Nairobi, 15 novembre L’ambasciatrice americana in Kenya, la…