Massimo Alberizzi, Alessandra Fava, Cornelia Toelgyes
17 Gennaio 2024
L’articolo del New York Times del 28 dicembre scorso firmato da Jeffrey Gettleman con la collaborazione di Anat Schwartz e Adam Sella, il cui testo è riportato qui, denuncia una violenza di massa senza precedenti, gettando i presupposti per un’accusa di stupro contro Hamas. Quello del Times è un articolo che provoca orrore e comprensibile disprezzo e sentenzia che “i combattenti di Hamas si sono impegnati in stupri e violenze sessuali sistematiche contro le donne israeliane”.
Le denunce del collega Gettleman (che Alberizzi conosce personalmente perché era corrispondente del quotidiano americano da Nairobi), sono state riprese da vari quotidiani, anche italiani, con grande enfasi. L’articolo ha provocato un’ondata di indignazioni legittime. È dal ratto delle sabine che le donne sono preda di guerra. Una pratica disumana e ignobile. Il Teatro Parenti di Milano ha lanciato anche una raccolta firme che in poche ore ha collezionato centinaia di adesioni. Ma l’articolo del New York Times non può essere accettato acriticamente, anche perché a una lettura attenta presenta diversi punti critici e si presta ad interrogativi che vanno chiariti.
Africa ExPress ha voluto controllare se gli stupri di massa e le mostruose violenze ci sono state veramente. Purtroppo, come ha scritto un nostro lettore: “in tempo di guerra più balle che terra”. Disgraziatamente, la propaganda gioca un ruolo perverso dal quale è assai difficile districarsi. Compito, tra gli altri, dei giornalisti dovrebbe essere quello di controllare la veridicità e l’autorevolezza delle fonti. Ed è a questo cui ci diamo dedicati.
Attenzione non neghiamo le violenze di genere di Hamas ma le denunce devono essere precise e inequivocabili e crediamo che in questo caso non lo siano e invece siano piuttosto grossolane. Siamo consapevoli che organizzazione palestinese si è macchiata di gravi e mostruosi crimini e violazioni dei diritti umani. I grandi giornali hanno abbondantemente trattato l’argomento. Noi con la nostra inchiesta vogliamo sottolineare che la propaganda sta facendo a pezzi l’informazione corretta, intellettualmente onesta e indipendente.
Non solo. L’imprecisione delle accuse rivolte ad Hamas rischia di provocare una pesante reazione negativa: un’ondata di inaccettabile ed esecrabile antisemitismo. Le responsabilità dei massacri provocati dai bombardamenti israeliani a Gaza non devono ricadere sugli ebrei ma sulle politiche sioniste di un Paese che ha sempre mal tollerato la presenza dei palestinesi su un territorio tutto sommato comune. Antisionismo e antisemitismo non sono assolutamente sinonimi ed è secondo noi assurdo che vengano trattati come tali. Il sionismo è una dottrina politica.
Africa Express ha potuto constatare che l’inchiesta del New York Times non presenta testimonianze dirette. Correttamente il collega americano racconta di averle raccolte da qualcuno che ha parlato con qualcun altro. E poi aggiunge che Hamas nega la partecipazione dei suoi uomini a violenze di genere e che nessun sopravvissuto ha voluto parlare pubblicamente con lui. Gettlemann precisa anche che non ci sono state denunce di donne violentate e non sono state fatte autopsie. Quasi tutti quelli sentiti da Jeffrey Gettleman sono soldati dell’apparato militare israeliano. Non tutti però.
Sapir, contabile di 24 anni, uno dei testimoni chiave della polizia israeliana, è stata sentita per due ore dal NYTimes in un bar. Racconta di aver visto stuprare 5 donne. Purtroppo, non ha voluto che il suo nome fosse rivelato e quindi è stato impossibile rintracciarla. Secondo la testimonianza riportata dal Times ha scattato numerose fotografie che ha fornito agli investigatori, ma non ai giornalisti. Strano, ma giustificabile con una comprensibile riservatezza.
Sapir “ha raccontato che alle 8 del mattino del 7 ottobre, dopo che le avevano sparato alla schiena, gravemente ferita, si era nascosta sotto i rami bassi di una folta tamerice, appena fuori dalla Route 232, a circa quattro miglia a sud-ovest della festa. Si era quindi coperta con l’erba secca e il fango ed è rimasta il più possibile immobile.
Continua poi il suo racconto, raccolto dal quotidiano americano: “A circa 15 metri dal suo nascondiglio, ha visto accostarsi moto, auto e camion. E un centinaio di uomini, molti dei quali vestiti con tute militari, alcune scure, e stivali da combattimento, che salivano e scendevano dai veicoli. Ha raccontato che gli uomini si sono radunati lungo la strada e si sono passati tra loro fucili d’assalto, granate, piccoli missili. C’erano anche donne gravemente ferite.
Francamente sembra poco credibile che una persona ferita alla schiena da un’arma da fuoco, nascosta sotto le foglie non venga scoperta da quel centinaio di uomini armati, in cerca di ostaggi a 15 metri di distanza. Ma tutto è possibile. Tra l’altro come abbiamo già raccontato in un precedente articolo, la strada 232 si trova a 100 metri dalla periferia di un kibbutz dove secondo Safir sarebbero avvenute altre violenze che lei sarebbe riuscita a vedere dal suo nascondiglio.
Un’altra intervista di un’ora e mezza, in un ristorante di Tel Aviv, riguarda un testimone diretto, Raz Cohen, un giovane israeliano consulente di sicurezza che aveva partecipato al rave party assalito da Hamas e che “aveva lavorato di recente nella Repubblica Democratica del Congo addestrando soldati congolesi”. Racconta di essersi nascosto in un ruscello prosciugato che gli ha fornito una certa copertura dagli assalitori alla ricerca di civili e pronti a sparare a chiunque.
E’ utile sapere che il governo di Benjamin Netanyahu nel 2019 ha firmato un accordo con il presidente congolese Félix Tshisekedi per inviare personale militare scelto nella Repubblica Democratica del Congo con il compito di addestrare le truppe e organizzare la sua sicurezza personale. Gli istruttori sono dislocati nella base di Kitona a pochi chilometri dall’Oceano Atlantico ma parecchi sono impiegati anche da “appaltatori militari privati” (leggi mercenari). La maggior parte sono rientrati in Israele richiamati in patria dopo gli assalti di Hamas del 7 ottobre, come rivelato dal periodico specializzato e informatissimo, Africa Intelligence.
La cooperazione militare ha rafforzato i legami bilaterali tra i due Paesi. Tshisekedi ha più volte espresso il suo sostegno al diritto di Israele di esistere e difendersi e ha aumentato il commercio e gli investimenti con le Stato ebraico. L’esercito congolese per le sue forze speciali ha adottato i mitra israeliani EMTAN MZ-4P, compatibili con le munizioni NATO.
Nel 2019, è stato rivelato che due agenzie di intelligence private israeliane la Beni Tal Security e la Black Cube sono state assoldate dall’ex presidente congolese Joseph Kabila per spiare i suoi oppositori e influenzare l’esito delle elezioni presidenziali. Le due società, composte principalmente da ex membri dell’esercito e dei servizi segreti israeliani, opera ancora in Congo ed è accusata di aver organizzato un’operazione segreta in un hotel di Kinshasa, dove gli agenti avrebbero intercettato telefonate, hackerato e-mail e corrotto funzionari.
Ovviamente nessuno degli uomini delle due agenzie ha voglia di parlare con i media, neanche garantendo loro l’anonimato, ma è lecito supporre che il personale militare israeliano inviato in Congo sia impiegato nelle agenzie sostenute dal governo dello Stato ebraico.
Le due società sono molto vicine a Dan Gertler, il magnate dei diamanti che opera prevalentemente proprio in Congo, colpito da pesanti sanzioni negli Stati Uniti. Qualcuno sostiene che siano proprio di sua proprietà, ma Africa ExPress non è stato in grado di verificare questa affermazione. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz che cita Bloomberg, il capo del Mossad, “i servizi segreti israeliani, Yossi Cohen, e l’ex ambasciatore di Israele negli Stati Uniti, Ron Dermer, sono stati impegnati in una campagna per convincere l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump a sospendere le sanzioni imposte al magnate minerario israeliano, coinvolto da anni in uno scandalo di corruzione multimilionario nella Repubblica Democratica del Congo”. Trump negli ultimi giorni della sua presidenza, infatti aveva tolto le sanzioni che furono però ripristinate da Joe Biden appena entrato in carica.
E’ bene notare che 23 settembre scorso (poco prima dell’assalto di Hamas, quindi) il Congo-K ha annunciato che trasferirà la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, città che hanno scelto pochissimi Paesi al mondo come sede della loro rappresentanza diplomatica, giacché secondo le Nazioni Unite, Gerusalemme non è riconosciuta come capitale dello Stato ebraico in quanto in base all’Onu è città internazionale e dovrebbe essere condivisa tra Israele e Palestina.
Questi dettagli rendono le testimonianze dei due mercenari israeliani in Congo leggermente viziate, se non poco credibili.
Tra i testimoni direttamente sentiti dal Times c’è un altro consulente di sicurezza, Yura Karol, 22enne, che ha dichiarato di essersi nascosto nello stesso punto di Sapir e di essere visibile in una delle foto della ragazza. Ha raccontato di aver alzato a malapena la testa per guardare la strada, ma ha anche descritto di aver visto una donna violentata e uccisa.
Secondo testimonianze di civili e soldati israeliani quel maledetto 7 ottobre per bloccare i massacri di Hamas sono intervenuti elicotteri dell’esercito di Tel Aviv che hanno sparato nel mucchio, uccidendo anche loro connazionali.
Tralasciamo poi l’intervista a Shoam Gueta, l’amico di Raz Cohen per evidenti motivi (condividono gli stessi obiettivi), e passiamo ad analizzare la testimonianza di Jamal Waraki, volontario dell’organizzazione non profit ZAKA. Il pezzo rimanda al sito di ZAKA, in cui viene magnificato il lavoro dell’ente che soccorre i cittadini israeliani.
Gettleman scrive: “The Israeli police have acknowledged that, during the shock and confusion of Oct. 7, the deadliest day in Israeli history, they were not focused on collecting semen samples from women’s bodies, requesting autopsies or closely examining crime scenes. At that moment, the authorities said, they were intent on repelling Hamas and identifying the dead” (La polizia israeliana ha riconosciuto che, durante lo shock e la confusione del 7 ottobre, il giorno più letale della storia di Israele, non si è concentrata sulla raccolta di campioni di sperma dai corpi delle donne, sulla richiesta di autopsie o sull’esame ravvicinato delle scene del crimine. In quel momento, hanno detto le autorità, erano intente a respingere Hamas e a identificare i morti).
Non spiega però che Zaka (che in ebraico vuol dire “Identificazione delle vittime di disastri”) è un’associazione creata nel 1995 da un gruppo di ebrei ultra-ortodossi e oggi ha una sede in Israele e una a New York. Nel suo sito https://zakaworld.org/about-zaka/ dichiara di avere 3 mila volontari cristiani, drusi e mussulmani, lavora con il ministero degli esteri, con l’esercito e con altri dipartimenti del governo.
Il fondatore, Yehuda Meshi Zahav, ha diretto Zaka fino al marzo 2021, quando è stato denunciato da uomini, donne e bambini che avrebbe violentato, al punto da essere definito dai media israeliani “il Jeffrey Epstein degli Haredi”, gli ultraortodossi appunto. Non è mai andato a processo perché è morto alla fine del 2022 dopo aver tentato il suicidio ed essere rimasto in coma per oltre un anno. Già nel 2003 era stato accusato di atti indecenti con minori e di aver aggredito moltissime ragazzine. In aggiunta era accusato di distrazione di fondi derivanti da donazioni: Zaka infatti ogni anno raccoglie milioni di dollari, ad esempio, dal 7 ottobre è in corso una raccolta speciale dedicata alla guerra in corso https://give.zakaworld.org/campaign/israel-needs-stronger-zaka/
E’ interessante sapere che i discendenti dalle famiglie rabbiniche e gli ultraortodossi in generale non sono tenuti a partecipare al servizio militare nazionale. Quindi di fatto sono esentati dall’esercito e molti di loro vivono col sostegno statale, argomento che suscita molte discussioni nella società israeliana e sui media. Molti in Israele vorrebbero che anche loro partecipassero alla leva obbligatoria.
Il ruolo dei volontari di Zaka è emerso nel post attentato di Hamas del 7 ottobre, quando i volontari del gruppo hanno raccolto corpi e parti di cadaveri e tracce di sangue per dare degna sepoltura. Solo settimane dopo le esequie sono emerse le testimonianze dei loro volontari a proposito dei segni di stupri che diverse donne avrebbero subito dai militanti di Hamas, dalle altre brigate e da civili gazawi usciti fuori da Gaza quel 7 ottobre.
Certo, forse il 7 ottobre sarebbe stato complicato, ma il giorno successivo e i giorni successivi sarebbe stato opportuno raccogliere le prove del massacro e individuare i colpevoli di quella carneficina. Strano che non sia venuto in mente a nessuno, a meno che non si volevano coprire i morti uccisi dal fuoco amico. E quindi viene spontanea una domanda: perché non sono stati ammessi i giornalisti che avrebbero potuto indagare con indipendenza e onestà sull’accaduto?
L’ultimo straziante racconto del New York Times è quello che riguarda “la signora in nero”, una donna, Gal Abdush, che è stata identificata pochi giorni dopo la strage. Alcuni membri della sua famiglia hanno visionato alcuni video girati dai primi soccorritori che ritraevano il suo cadavere.
“Il video – scrive il Times – ha attirato l’attenzione anche dei funzionari israeliani che, molto rapidamente dopo il 7 ottobre, hanno iniziato a raccogliere prove di atrocità. Hanno incluso il filmato del corpo della signora Abdush in una presentazione fatta a governi e organizzazioni mediatiche straniere, usando la signora Abdush come rappresentazione della violenza commessa contro le donne quel giorno. Ma l’unico documento che la famiglia ha ricevuto è una lettera di una pagina del presidente di Israele, Isaac Herzog, che esprime le sue condoglianze e manda un abbraccio”.
Il governo israeliano dunque ha presentato la tragedia di Gal Abdush e del marito Nagi, ucciso anche lui, come esempio dell’orrore perpetrato dagli uomini di Hamas, ma il giorno dopo la pubblicazione del rapporto del quotidiano americano, il sito di notizie israeliano Ynet ha condotto un’intervista con i genitori di Gal, i quali hanno sottolineato che non vi è alcuna prova che la ragazza sia stata violentata e che i giornalisti del giornale li hanno intervistati con un falso pretesto, affermando che non sapevano nulla della questione della violenza sessuale fino alla pubblicazione del pezzo del quotidiano americano. Inoltre, anche la sorella di Gal ha negato con forza le accuse di stupro. L’intervista dei familiari sul sito di ynet è stata cancellata, mentre comprare quella della madre che conferma lo stupro:
https://www.ynetnews.com/magazine/article/sywr0ylot
Dal sito di Ynet news effettivamente sono state depennate numerose pagine di news tra fine dicembre e inizio gennaio che non sono più reperibili, nonostante il sito web.archive abbia fatto ogni giorno decine di screenshot. Insomma, è stato eliminato tutto quello che riguarda gli Abdush, tranne l’intervista alla madre, che avvalora la tesi dello stupro.
Invece a quanto risulta da screenshot cancellati ma salvati da qualcuno e quindi visionati da Africa ExPress, molti dei quali in lingua ebraica, Gal Abdush non sarebbe stata violentata. Ad esempio, il sito americano Mondoweiss, secondo il prestigioso quotidiano israeliano Haaretz , scrive: “La famiglia di un caso chiave nel servizio sulle violenze sessuali del New York Times del 7 ottobre rinuncia alla storia, sostenendo di essere stati manipolati dai giornalisti.
Un articolo del New York Times che denuncia le violenze di genere il 7 ottobre si basava sulla storia di Gal Abdush. Ma la famiglia Abdush afferma che non ci sono prove che la ragazza sia stata violentata e che i giornalisti del Times li hanno intervistati con un falso pretesto”.
Su questo link si può leggere il testo integrale in inglese:
“Il 28 dicembre – scrive Mondoweiss –, il New York Times ha pubblicato un rapporto “investigativo” sulla violenza di genere che sarebbe stata commessa dai palestinesi durante l’attacco del 7 ottobre. Il giornale afferma che la storia si basa su oltre 150 interviste condotte dal reporter premio Pulitzer Jeffrey Gettleman, insieme ad Anat Schwartz e Adam Sella. La storia conclude che i combattenti di Hamas si sono impegnati in stupri e violenze sessuali sistematiche contro le donne israeliane. La storia in sé ripete le testimonianze del 7 ottobre già pubblicate in precedenza e già sfatate e screditate, ma l’inchiesta del Times si basa prevalentemente su una storia centrale, quella dello stupro di “Gal Abdush”, che il Times descrive come “la donna con il vestito nero”.
Sostenendo che la sua storia dimostra che “gli attacchi contro le donne non sono stati eventi isolati, ma parte di un più ampio schema di violenza di genere il 7 ottobre”, la veridicità della storia del New York Times è stata minata quasi subito dopo la sua pubblicazione, anche dalla stessa famiglia Abdush, secondo cui non ci sono prove che Gal Abdush sia stata violentata e che il New York Times li ha intervistati con un falso pretesto”.
(qui il testo originale in inglese: On December 28, the New York Times published an “investigative” report on gender-based violence allegedly committed by Palestinians during the October 7 attack. The newspaper says the story was based on over 150 interviews conducted by Pulitzer Prize-winning reporter Jeffrey Gettleman, along with Anat Schwartz and Adam Sella. The story concludes that Hamas fighters engaged in systematic rape and sexual violence against Israeli women.
The story itself repeats October 7 testimonies that have been previously published and already debunked and discredited, but the Times investigation hinges predominantly on one central story, the story of the rape of “Gal Abdush,” who is described by the Times as “The Woman in the Black Dress.”
Although claiming its story proves that “the attacks against women were not isolated events but part of a broader pattern of gender-based violence on Oct. 7” the veracity of the New York Times story was undermined almost as soon as it was published, including from the Abdush family itself who says there is no proof Gal Abdush was raped and that the New York Times interviewed them under false pretenses.)
Anche la sorella di Gal, Miral Altar, ha scritto su Instagram un commento sulla morte della sorella. In risposta a un video, dal suo account, Miralalter, commenta: “Non riesco a capire tutte queste notizie. Ci sono state molte storie difficili, perché questa storia in particolare? Si basa su un solo video pubblicato all’insaputa della famiglia… È vero che le scene del video non sono facili, ma è chiaro che il vestito è sollevato verso l’alto e non nel suo stato naturale, e metà della testa è bruciata perché hanno lanciato una granata contro la macchina. Non voglio essere interpretata come se stessi giustificando quello che hanno fatto; sono animali, hanno stuprato e decapitato persone, ma nel caso di mia sorella, questo non è vero. Alle 6.51 Gal ci ha mandato un messaggio su WhatsApp dicendo: “Siamo al confine e non potete immaginare i rumori delle esplosioni intorno a noi”. Alle 7 mio cognato (Nagi, ndr) ha chiamato suo fratello (il marito di Gal, ndr) dicendo che hanno sparato alla moglie e che sta morendo. Non ha senso che in quattro minuti l’abbiano violentata, massacrata e bruciata?”.
Questo il messaggio in ebraico pubblicato da Miral Altar su Instagram.
E’ anche sospetta la tempistica della denuncia delle violenze sessuali sistematiche apparsa sui media israeliani solo dopo la metà di novembre, quindi oltre un mese dopo l’attacco di Hamas e la sepoltura delle vittime. I media israeliani cominciano a parlare di stupri solo a metà novembre. Ad esempio studiando lo storico di Ynet news le notizie sugli stupri appaiono per la prima volta il 16 novembre con l’annuncio di una violenza sessuale su una ragazza minorenne.
https://web.archive.org/web/20231129041123/https://www.ynetnews.com/article/bjqmutqv6#autoplay
Il 23 novembre l’allora Ministro degli esteri israeliano, Eli Cohen (dal 1 gennaio 2024 Ministro dell’energia e le infrastrutture), lancia campagna internazionale contro violenza sulle donne con l’hashtang “credete alle donne israeliane”.
https://web.archive.org/web/20231124000515/https://www.ynetnews.com/article/r13gzvaet#autoplay
Il 4 dicembre Israele denuncia all’ONU gli stupri di Hamas durante l’attacco del 7 ottobre.
https://web.archive.org/web/20231207070036/https://www.ynetnews.com/article/bjmykooba#autoplay
https://web.archive.org/web/20231205021855/https://www.ynetnews.com/article/skn3umsba
Il 29 dicembre sulla scia del New York Times si parla della donna in nero, che oggi è anche su Wikypedia https://en.wikipedia.org/wiki/Gal_Abdush
https://web.archive.org/web/20231231234932/https://www.ynetnews.com/article/h1ep5yhwp
Il 1° gennaio parla la madre di Gal Abdush e conferma lo stupro anche se prima tutta la famiglia aveva detto che non ne avevano alcuna prova e che ne hanno letto solo dopo l’articolo del NYT
https://web.archive.org/web/20240101133654/https://www.ynetnews.com/magazine/article/sywr0ylot
Per altro proprio il 1° gennaio, Nissim Abdush, fratello di Nagi, durante un’intervista a Canale 13 israeliano ha ripetutamente negato che Gal sia stata violentata, dicendo che in una telefonata ricevuta dal fratello alle ore 7, Gal era già morta e che in un messaggio delle ore 7.44 raccomandava di occuparsi dei loro figli.
https://13tv.co.il/item/documentary/worth-a-story/usmj7-903873429/
Le condizioni di ritrovamento del corpo di Gal, che il quotidiano americano attribuisce senza un’indagine indipendente seria, ad Hamas, potrebbero anche essere legate ai bombardamenti e gli interventi anche aerei dell’esercito israeliano, che ha ricevuto l’ordine di sparare contro i militanti di Hamas anche a rischio di uccidere la popolazione civile israeliana.
Hamas ha respinto con forza le accuse di stupri e aggressioni sessuali rivolte ai suoi combattenti, affermando che il regime sta cercando di demonizzare la resistenza con queste storie inventate. “Respingiamo le menzogne israeliane sugli stupri, che mirano a distorcere la resistenza e a infangare il nostro trattamento umano e morale dei prigionieri”, ha dichiarato Hamas in un comunicato all’inizio di dicembre.
“Il regime israeliano – è il pensiero di Hamas – ha scatenato la guerra su Gaza il 7 ottobre, dopo che l’organizzazione ha lanciato la sua operazione contro gli occupanti, in risposta alle atrocità israeliane contro i palestinesi”.
Obbiettivo di Hamas non era di ammazzare e massacrare gli israeliani ma piuttosto di prenderli in ostaggio: i vivi possono essere utilizzati come merce di scambio, i morti, purtroppo, non hanno nessun valore in caso di una trattativa. Ammazzando indiscriminatamente la gente si provoca solo una reazione violenta. I prigionieri invece, come sta accadendo, si possono utilizzare come scudi umani. E’ bene ricordare ancora come gli elicotteri israeliani hanno sparato nel mucchio del rave party uccidendo sì i miliziani di Hamas ma anche i loro connazionali.
La scorsa settimana l’unità 105 della Polizia israeliana ha aperto un fascicolo per stupri, abusi e violenze sessuali commesse da Hamas il 7 ottobre. Un ispettore capo ha rivelato che “si tratta di testimonianze di prima mano di offese sessuali da parte di persone che hanno visto coi loro occhi e sentito con le loro orecchie” e che le prove della mutilazione di organi sessuali sono state portate dai volontari di Zaka.
Sicuramente sarà interessante vedere a quali conclusioni arriverà la commissione ONU preposta per indagare sui presunti stupri etnici che arriverà in Israele alla fine del mese. Ma noi giornalisti, intanto, dovremmo fare attenzione. La propaganda in guerra è sempre in agguato e proviene da ogni parte: non solo da chi è direttamente coinvolto sul campo di battaglia.
Massimo A. Alberizzi (massimo.alberizzi@gmail.com)
Alessandra Fava (alessandrafava2023@proton.me)
Cornelia Toelgyes (corneliaisabeltoelgyes@gmail.com)
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