Alessandra Fava
6 dicembre 2023
L’attacco prolungato a Gaza con bombardamenti indistinti anche sugli ospedali e in aree abitate continua a colpire la popolazione civile. Secondo le autorità palestinesi, i morti superano le 16 mila unità. Dei vivi, su 2 milioni e 300 mila abitanti prima della guerra, oggi un milione e novecento mila sono sfollati, senza più una casa (dati UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi).
L’intento dichiarato di eliminare Hamas dalla Striscia di Gaza, reiterato in tutte le dichiarazioni e le conferenze stampa del premier Benjamin Netanyhau, comporta che Gaza venga rasa al suolo. Per uccidere un membro di Hamas fanno morire mille civili.
Gli Stati uniti da un lato stanno mandando ad Israele bombe ad alta penetrazione ( scoop del Wall Street Journal di pochi giorni fa https://www.wsj.com/world/middle-east/u-s-sends-israel-2-000-pound-bunker-buster-bombs-for-gaza-war-82898638), dall’altro Kamala Harris ha detto che Gaza deve restare palestinese e gli Usa appoggiano la soluzione dei due Stati, che sembra sempre più una chimera con più di 700 mila coloni installati in Cisgiordania.
L’attacco sanguinoso di Hamas del 7 ottobre che ha comportato la morte di 1.200 persone e il rapimento o la morte di 240 ostaggi ha dato la stura alla vendetta. La maggior parte della gente in Israele ritiene sia giusto eliminare Hamas. I giornali non parlano molto delle vittime palestinesi, piuttosto dibattono sulla necessità di una buffer zone, una zona cuscinetto tra Israele e la Striscia di Gaza per “allontanare” il pericolo di incursioni. Di fatto il governo è determinato ad estendere il controllo dell’IDF, l’esercito israeliano, su tutta la Striscia.
Del popolo palestinese non si sa che cosa succederà. In rete circola un progetto di dislocarne una parte in Giordania, una parte in Egitto, una parte in Libano. La fonte sarebbe americana, difficile verificarne la credibilità. Sta di fatto che l’esercito israeliano cerca di spostare la popolazione gazawi da un’area della Striscia a un’altra inviando messaggi sui social. L’obiettivo dichiarato a parole dal governo israeliano di salvare la popolazione civile e non coinvolgerla in bombardamenti si è risolto in mappe degli attacchi via internet. E infatti in una giornata sola (3 dicembre) sono morte 800 persone.
In questa carneficina, è utile valutare con attenzione i progetti recenti del governo israeliano, esplicitati urbi et orbi, dopo aver firmato nel 2020 l’Accordo di Abramo con l’Arabia saudita,il Barhein e gli Stati uniti.
Il premier Bibi Netanyhau intervenendo il 22 settembre del 2023 all’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha disegnato il nuovo Corridoio che va dall’India all’Arabia saudita e dal Golfo di Aqaba (Mar Rosso) finisce in Israele e sul Mediterraneo. Bibi davanti al mondo ha tratteggiato una riga rossa che attraversa l’Arabia e arriva sulla Striscia. Ecco il disegno e le parole https://www.youtube.com/watch?v=fRHNgppUeIs oppure youtube.com/watch?v=Atag74u01AM
Il discorso completo https://www.timesofisrael.com/full-text-of-netanyahus-un-address-on-the-cusp-of-historic-saudi-israel-peace/, anche a video https://www.youtube.com/watch?v=Atag74u01AM
Nel discorso alla Nazioni Unite di settembre scorso, il premier israeliano ha anche spiegato che oltre al legame con l’Arabia saudita e gli Emirati, “due settimane fa, abbiamo visto un’altra benedizione. Alla conferenza G20, il presidente Biden, il primo ministro (indiano ndr.) Modi, e i leader europei e arabi hanno annunciato piani per un corridoio visionario che attraversi la penisola araba e Israele. Connetterà l’India all’Europa, con linee marittime, ferroviarie, oleodotti e cavi di fibra ottica. Questo corridoio bypasserà i controlli marittimi e renderà meno costosi i trasporti di merci ed energia per oltre 2 miliardi di persone. Vedete come Israele è situato tra Africa, Asia ed Europa”.
E’ evidente che nei “controlli marittimi” si legga anche che viene messo in cantina il canale di Suez, destinato secondo questo progetto a diventare secondario. E’ chiaro così l’intento di indebolire l’Egitto, togliergli le entrate provenienti dal passaggio delle navi nel canale di Suez e ridurre i rischi di attacchi da parte degli yemeniti. E’ legittimo chiedersi che cosa resta della Striscia di Gaza palestinese in questo “tremendous change” economico previsto dal “Corridoio”. E infatti la stanno radendo al suolo.
A fronte di queste sorti magnifiche e progressive, i media arabi e indiani sono tornati su vecchio progetto: quello del Canale Ben Gurion, alternativa al Canale di Suez, che di recente sarebbe stato rilanciato da un blogger siriano (fonte Wikipedia https://en.wikipedia.org/wiki/Ben_Gurion_Canal_Project). Andrebbe da Elat (Israele) alla Striscia di Gaza, quindi sul Mediterraneo, a sud di Haifa.
E’ un progetto di cui si parla dagli anni Sessanta. Prevede scavi importanti nelle rocce desertiche, ma il canale avrebbe il vantaggio di avere il fondo di roccia e quindi eviterebbe gli insabbiamenti del Canale di Suez (ci sono state diverse navi insabbiate tra cui quella del 2021). Un esperto di commercio marittimo genovese alla domanda strabuzza gli occhi, dice che non ne ha mai sentito parlare e lo giudica impossibile da realizzare.
Comunque, da parte di Israele, è chiara la volontà di creare nuove infrastrutture per avere il controllo commerciale, strategico ed economico dell’area. Poi che siano ferrovie o vie di mare sarà da vedere. Certo bisognerà considerare che il Pireo è in mano ai cinesi come Dubai, ma si può sempre saltare il Pireo e navigare verso il Mediterraneo occidentale.
Israele infatti sta rafforzando il porto di Haifa, privatizzato nel 2022 da una partnership indo-israeliana, formata dal gigante indiano Adani (che opera in energie alternative, porti, areoporti, infrastrutture e cemento con partnership militari con Israele) e da quello israeliano Gadot.
Il porto di Haifa che fungerebbe da punto di connessione con le nuove tratte indo-europee ha avuto un boom nell’automatizzazione solo nell’ultimo anno, attirando la metà dell’automotive nazionale nel 2023 contro il 12 per cento dell’anno prima 2022. Il porto di Haifa gestisce il 32 per cento del traffico di container in Israele e contando anche i container vuoti raggiunge il 39 per cento.
Inoltre poco a nord di Haifa è stato scoperto un nuovo giacimento di gas naturale off-shore in acque israeliane e proprio a guerra di Gaza scoppiata, l’azienda petrolifera statunitense Chevron ha ripreso l’estrazione di gas sulla piattaforma di Tamar su ordine del governo israeliano. Tamar si trova a 12 miglia fuori della Striscia di Gaza e il governo reputa che ora non sia più a rischio. Col gas russo sotto embargo troveranno sicuramente dei mercati.
Sarà interessante vedere nel tempo come terranno gli Accordi di Abramo. L’Arabia saudita, per rispondere in qualche modo alle proteste e alle manifestazioni di piazza contro lo sterminio della popolazione di Gaza, ha appena deciso di chiedere il blocco delle esportazioni di armi a Israele, una sorta di embargo limitato al militare.
L’11 novembre, nel vertice dei Paesi arabi a Ryad, è stato chiesto il cessate il fuoco immediato e anche il principe saudita, Mohammd bin Salman, aveva rimarcato la soluzione dei due Stati. Anche l’India di Modi alla Cop28 di Dubai si è limitato a dire che appoggia la soluzione dei due Stati. Tuttavia l’8 novembre il ministro dell’economia saudita Khalid al-Falih ha detto che la normalizzazione dei rapporti tra Israele e l’Arabia saudita è ancora in corso. Tenendo fede a quanto stabilito anche con gli Usa, l’Arabia ne ricaverebbe la possibilità di commercio di armi con gli Stati uniti e lo sviluppo del nucleare per uso civile.
Così gli altri Paesi dell’area stanno organizzando un nuovo fronte. L’Iran alla fine di novembre ha stabilito nuovi contatti con la Giordania in funzione anti-Arabia saudita, dopo che la Giordania la settimana prima aveva deciso di non firmare degli accordi di scambi acqua contro elettricità con Israele a causa della guerra a Gaza.
La ratifica dell’accordo, che prevedeva che la Giordania desse acqua ad Israele ricevendo in cambio energia elettrica, era prevista per il mese di ottobre, ma è diventata carta traccia. I due Paesi avevano ritrovato una certa collaborazione e pace con un accordo del 1994 che stabiliva anche la restituzione di 380 km quadrati da Israele alla Giordania e la risoluzione delle dispute sulle acque.
Pochi giorni fa però il ministro degli Esteri giordano, Ayman Safadi, parlando con Al Jazeera, il canale tv quatariota, ha spiegato che la guerra a Gaza ha fermato ogni accordo commerciale con Israele e ha aggiunto che “nel 1994 abbiamo firmato un accordo come parte di un impegno da parte dei Paesi arabi affinché si arrivasse alla soluzione dei due Stati. Questo non è successo. Israele non ha tenuto fede alla sua parte di impegno. Quindi l’accordo di pace rimane nel dimenticatoio a prendere polvere per ora”.
Insomma la Giordania ha assunto un atteggiamento bellicoso con Israele, confermato anche dal fatto che il governo starebbe prendendo in considerazione la possibilità di presentare ricorso alla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra, come è stato appena fatto anche dalla Turchia.
Tornando al discorso di Bibi alle Nazioni Unite, Netanyhau rimarcando come sia importante l’appoggio dei Paesi arabi per una soluzione di pace, ha ricordato che “the Palestinians are only 2% of the Arab world”. Se l’altro 98 sta con Israele è fatta. Con o senza Gaza palestinese.
Alessandra Fava
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