Massimo A. Alberizzi
Nairobi, novembre/dicembre 2023
Tra i diplomatici e i giornalisti a Nairobi circola un documento diffuso dalle intelligence americana e keniota secondo cui all’interno della leadership degli shebab c’è una disputa sulla linea politica e, soprattutto, sulle finanze del gruppo. Secondo il rapporto da un lato ci sarebbe l’emiro e capo spirituale degli shebab, Ahmed Omar Dirye, soprannominano Abu Ubeida, e dall’altro uno dei suoi vice e capo della sei servizi segreti del gruppo (l’Amniyat) , Mahad Warsame Abdi, più conosciuto con il soprannome di Mahad Karatè. Karatè è colui che ha organizzato (per conto degli eritrei) il mio rapimento a Mogadiscio esattamente 17 anni fa: il 2 dicembre 2006.
E’ stato soprannominato Karatè perché prima della guerra civile cominciata il 30 dicembre 1990, era istruttore di arti marziali. Sulle loro teste pesa una taglia di 10 milioni di dollari messa dal governo americano nel programma Reward for Justice.
L’aspra contesa tra due leader chiave di al Shebeb in Somalia minaccia ora di dividere la milizia a vantaggio delle operazioni di contrasto al terrorismo in corso nel Paese e nella regione.
I servizi segreti del Kenya ritengono che Amniyat abbia svolto un ruolo chiave nell’esecuzione di attacchi suicidi e assassinii in Somalia, Kenya e altri Paesi della regione. L’agenza fornisce supporto logistico alle attività terroristiche di al Shebab ed è responsabile degli attacchi al centro commerciale Westgate a Nairobi nel settembre 2013 (63 morti e 175 feriti) e al Garissa University College in Kenya dell’aprile 2015, in cui sono state uccise 148 persone e 79 ferite, per lo più studenti.
Secondo l’intelligence keniota la lite tra i due leader è cominciata quando alcuni membri dell’Amniyat sono stati arrestati da fedeli a Dirye. I rapporti visionati da Africa ExPress, sostengono che la disputa riguarda la linea politica del movimento: gli shebab sono affiliati ad Al Qaeda ma recentemente (forse da più di un anno) sono stati avvicinati da emissari dell’ISIS per convincerli a cambiare alleanza.
Altri rapporti citati dalla giornalista investigativa keniota Mary Wambui che scrive per il più diffuso quotidiano locale, il Daily Nation, parlano soprattutto di una lite tra clan per la leadership del gruppo.
Quando fui rapito, nel 2006, nella capitale somala governavano le corti islamiche. Un commando dei suoi uomini, guidato appunto da Mahad Karatè, piombò nel mio albergo, nella nuova location del Sahafi Hotel, e mi arrestò portandomi per un interrogatorio davanti a un plotone di esecuzione sulla pista dell’aeroporto, deserto giacché nessun velivolo osava avventurarsi nella captale dell’ex colonia italiana.
Appena prelevato dall’hotel, nell’auto con cui mi stavano portando nello scalo, Hassan, l’interprete che sedeva accanto a me sul sedile posteriore, cercava di tranquillizzarmi in italiano (“Stai tranquillo, noi siamo buoni, non è vero che siamo cattivi come dicono”) mentre Mahad Karatè mi mostrava il suo badge di riconoscimento presentandosi: “Sono del servizio di sicurezza delle Corti Islamiche”.
Mahad appartiene alla cabila habergidir, sotto clan aer, e quella notte durante la riunione del tribunale islamico, tutti gli aer compreso il gran capo delle Corti in quel momento, Shek Hassan Daher Aweis (rimosso tempo fa dalla lista dei terroristi più pericolosi perché ha lasciato gli shebab e si è schierato con il governo sostenuto dall’Occidente) si schierarono a mia difesa. Mentre altri sostenevano che avrei dovuto essere fatto fuori. Devo dire che Mahad con me si è comportato in modo molto gentile, non mi ha mai minacciano a parole né ha usato violenza fisica.
Secondo i rapporti di intelligence emersi ora, Karatè non ha mai nascosto le sue ambizioni. Ma ha mostrato una forte propensione per le apparizioni pubbliche anche nei media e ha accresciuto la sua notorietà e il suo carisma all’interno del movimento, le cui dinamiche si sono inceppate.
Il rapporto visionato, ma non ottenuto, da Africa ExPress, racconta che Karatè in passato è stato accusato di collaborazione con agenzie di spionaggio somale, keniote e internazionali e, secondo i suoi avversari all’interno degli shebab, si sarebbe addirittura spinto a denunciare gli uomini di Dirye, alcuni dei quali sarebbero stati uccisi.
Ma le accuse diventano ancora più pesanti quando il rapporto sostiene che le famiglie di Karatè e dei suoi più stretti collaboratori hanno accumulato ricchezze enormi e vivono all’estero nell’opulenza. Insomma secondo le informazioni contenute nel documento di intelligence il capo delle spie degli shebab si sarebbe impadronito di parte delle risorse economiche dell’organizzazione.
In effetti nel quartiere Somalo di Eastleigh, una volta piuttosto degradato e in povere condizioni, i businessmen somali abbondano, e nelle strade, accanto ai miseri carrettini trainati a mano, circolano automobili di lusso. Sono in molti a sostenere che lì, nei palazzi nuovi e signorili che hanno preso il posto delle catapecchie, ci vivano anche le famiglie dei leader somali shebab che da Eastleigh gestiscano gli affari del coniuge.
Nei due video: com’è cambiata Eastleigh a Nairobi. Da bassifondo a sobborgo di lusso
Il Dipartimento di Stato americano ritiene che al Shebab incassi più o meno 100 milioni di dollari all’anno attraverso diverse fonti di finanziamento, tra cui l’estorsione di imprese e individui locali, la riscossione di tasse sulle merci, i pedaggi sulle strade e l’agevolazione di traffici illeciti. Naturalmente tra gli incassi anche i proventi dei business avviati con i soldi degli ingenti riscatti riscossi negli anni scorsi dai sequestri dei mercantili nelle acque somale.
Ulteriori rapporti indicano che Karatè è riuscito ad assicurarsi la fedeltà di alcuni leader shebab di alto rango: Abdullahi Osman Mohammed, soprannominato Ingegnere Ismail, Mustafa Srwan, Sheck Fuad Shangole e Abdirahmen Fillow che si sono allontanati dalla fazione di Dirye.
Infine, ciliegina sulla torta, Karaté è accusato di aver preso segretamente contatti con emissari dell’ISIS nel nord della Somalia e finanziato le loro attività con i soldi della cassa degli shebab. Gli osservatori diplomatici a Nairobi prevedono che, se diventasse lui il capo dell’organizzazione, potrebbe spostare l’alleanza da Al Qaeda allo Stato Islamico.
Dirye, fedele alla vecchia organizzazione di Bin Laden, appartiene invece al clan dir, e sta tentando di frenare questo slittamento e bloccare la scalata di Karatè verso la leadership. Quindi aer contro dir. La Somalia non si smentisce mai: la fedeltà di clan è più forte di ogni ideologia o fede religiosa.
Africa ExPress ha cercato una conferma delle informazioni contenute nei rapporti di intelligence, che non devono mai essere accettati acriticamente e senza verifiche. Le fonti somale cotattatate e Nairobi hanno ridimensionato la lite circoscrivendola a un normale dibattito politico: “Gli shebab stanno discutendo se aderire all’ISIS o restare una branca di Al Qaeda – ha spiegato Ali (nome di fantasia per morivi di sicurezza – . Finora non ci sono stati scontri armati e speriamo non ci siano, perché in questi casi è sempre la popolazione civile che ne fa le spese”.
Massimo A. Alberizzi
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