La stampa che dà fastidio: il governo israeliano vuole chiudere Haaretz

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Speciale per Africa ExPress e per Senza Bavaglio
Alessandra Fava
27 novembre 2023

“Se il governo vuole chiudere Haaretz, è venuto il momento di leggere Haaretz”: così l’editore di uno dei quotidiani più famosi e popolari di Israele, chiamato Haaretz, Amos Schocken, ha risposto alla proposta di legge del ministro della Comunicazione israeliano, Schlomo Karhi, di eliminare ogni finanziamento alla testata.

Ministro per le Comunicazioni israeliano, Schlomo Karhi

Haaretz in ebraico significa “terra”, la terra di Israele. Fondato nel 1918 è diventato un punto di riferimento, uno strumento per i giornalisti esteri, dà voce a tutti (dai palestinesi ai movimenti pacifisti), ha fatto da megafono alle recenti proteste contro la riforma della Corte suprema e lo sconvolgimento dei meccanismi di potere. Pubblica che cosa succede nella West Bank e nella Striscia di Gaza (non solo ora che c’è la guerra), fa inchieste, intervista coloni e palestinesi e nomadi del Negev. Dà voce a minoranze e maggioranze.

Con la guerra di Gaza ha lasciato un discreto spazio alle critiche al governo e all’esercito per la mancata difesa dei Kibbutz attaccati violentemente da Hamas per ore nel drammatico 7 ottobre scorso, ha intervistato quotidianamente i parenti dei duecento e passa rapiti da Hamas che hanno esercitato una pressione politica per ottenere il rilascio degli ostaggi.

La scorsa settimana ha pubblicato un approfondimento sull’elicottero da combattimento che avrebbe sparato sui partecipanti al rave party israeliani facendo un certo numero di vittime. E’ molto critico su Netanyahu e la sua fuga dalle inchieste che lo accusano di corruzione.

Tutto questo certo ha dato fastidio (e dà fastidio) a quello che in Israele ora chiamano il triumvirato/gabinetto di guerra, formato dal premier Bibi Netanyahu, il ministro della difesa Yov Gallant e il ministro senza portafoglio Benny Ganz, che fanno comunicazioni urbi et orbi e videoconferenze spesso insieme. La libertà di ospitare opinioni diverse nella testata ha condotto il ministro della Comunicazione a presentare al Segretario di gabinetto Yossi Fuchs, una proposta di legge per vietare la pubblicazione di “note del governo” su Haaretz, in quanto il giornale “sabota Israele in tempo di guerra”, “induce la sfiducia nei soldati e civili israeliani che stanno affrontando il nemico” e “dissemina bugie e pubblica propaganda disfattista”.

La proposta di legge in sostanza vieterebbe l’acquisto del giornale da parte di
qualsiasi istituzione statale e ogni forma di finanziamento al giornale da parte di apparati pubblici. Fino a dove arriva il divieto nella proposta di legge non è chiaro: il giornale non potrebbe più pubblicare alcun annuncio statale, quindi niente neppure su concorsi pubblici o aste e cancellerebbe tutti gli abbonamenti compresi quelli nelle carceri e negli uffici amministrativi, nelle sedi dell’esercito, nei palazzi pubblici in generale.

Il sindacato dei giornalisti israeliani è intervenuto immediatamente con un messaggio di supporto alla testata e ai colleghi: “il ministro deve aver perso la sua strada. Dopo aver fallito nei tentativi di chiudere una società di comunicazione, si attacca a un nuovo obiettivo” e “lancia una proposta populista senza alcuna logica”, cioè tenta di eliminare ogni relazione tra lo Stato e la testata.

Il ministro infatti ha già provato a chiudere una tv libanese, Al Maydeen legata ad Hezbollah. Siccome la tv è connessa anche a quella quatariota Al Jazeeera il gabinetto ha respinto la sua richiesta sulla tv.

Dietro l’affaire Haaretz c’è anche un retroscena. Il 18 novembre alla sera il figlio maggiore di Netanyahu, Yair, sul suo canale Telegram ha criticato l’esercito, la Corte suprema e i media in concomitanza con una conferenza stampa del padre. Netanyahu figlio nel suo post ha attaccato il cambio delle regole di ingaggio al confine con Gaza deciso dalla Corte di giustizia, fattore che avrebbe permesso l’attacco da parte di Hamas.

Yair – che non è nuovo alle esternazioni sui social tanto che in passato alcuni politici hanno proposto di impedirgli ogni commento politico online – ha scritto anche che le soldatesse che passano il tempo ad osservare sugli schermi i movimenti nella Striscia di Gaza dalla postazione militare al confine nord di Eretz e avevano segnalato già mesi fa strani movimenti, hanno ricevuto l’ordine perentorio di un loro superiore “di non rompere le scatole”.

Le soldatesse per mesi hanno dunque visto persone che si muovevano in gruppo nella Striscia a ridosso del confine nord, scavavano, ispezionavano il terreno, arrivavano a ridosso del muro difensivo, una muraglia cinese con una rete che sprofonda nella terra
giudicata imbattibile e di recente costruzione.

Vedevano palestinesi che si appropinquavano, confabulavano con dei gruppi e non sembravano dei contadini. Vedevano anche droni lanciati da Gaza che sorvolavano ispezionando l’area. Nessuno è stato a sentirle. Lunedì 20 il Jerusalem Post raccontava di
Netanyahu figlio e le reazioni dei militari.

Il giorno dopo, il 21 novembre, Haaretz prontamente ha pubblicato una pagina intera con richiamo in prima sulla vicenda. Titolo “Soldatesse avevano avvertito sull’attacco imminente di Hamas – e sono state ignorate”. Haaretz, senza fare riferimento al figliol prodigo, ha intervistato due soldatesse-sentinelle, che hanno denunciato il clima maschilista e la sottostima da parte di colleghi maschi, più anziani e di grado superiore (già tema di un’altra inchiesta passata di Haaretz).

Le spotter o tatspitanit come sono chiamate in ebraico, sopravvissute all’attacco del 7 alla postazione militare, sono riuscite a lanciare l’allarme tra i cadaveri dei loro colleghi. Da allora non riescono a tornare a lavorare a causa dello shock subìto.

La rivelazione di Haaretz a tutta pagina deve essere stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e così poche ore dopo il ministro della Comunicazione ha consegnato la sua proposta di legge, pubblicando anche su X (ex twitter) un messaggio chiaro sulla sua volontà di eliminare il quotidiano scomodo. Molti giornalisti e opinionisti si sono abbonati ad Haaretz.

INTANTO:
La guerra a Gaza ha toccato i 14.800 morti secondo gli uffici governativi della Striscia. Nella West Bank sono stati uccise dall’esercito israeliano e dai coloni 230 persone dal 7 ottobre. 7 persone sono state uccise da IDF durante i quattro giorni di coprifuoco nella parte nord di Gaza.

Il ministero delle Finanze israeliano ha fatto i conti dei costi della guerra contro Hamas: ogni settimana di guerra a Gaza costa 10 miliardi di shekel (circa 2,5 miliardi di euro alla settimana). A questa cifra sono da aggiungere i costi dei 300 mila riservisti mobilitati: altri 10 miliardi di shekel solo per le prime tre settimane di guerra (2,5 miliardi di euro).

Poi bisogna aggiungere i costi di spostamento della popolazione israeliana dal Negev e dalla Galilea, pari a 1,7 miliardi al mese di shekel (400 milioni di euro circa al mese, essendo tutti ospitati altrove a spese del governo).

Morale, secondo il ministro dell’economia israeliano il Pil da una crescita prevista del 3,2 si aggirerà alla fine dell’anno al massimo su una crescita annuale del 2 per cento, col debito annuale che quadruplica, passando dall’1 al 4 per cento del Pil.

Alessandra Fava
alessandrafava.privacy@gmail.com
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