Andrea Angeli*, che ne sarà della Palestina, di Israele e quindi del Medio Oriente quando questo inferno, a Dio, ad Allah (e agli uomini) piacendo si sarà placato?
Domanda d’obbligo, anche quando nelle cronache quotidiane l’onda emotiva delle guerre sta passando, superata da altri fatti di cronaca. Ma il problema resta, ed è drammatico. L’orizzonte è ancora in fiamme. Gaza è sotto le bombe. Per gli ostaggi israeliani si tratta nella totale incertezza.
Nessuno ha la palla di vetro, ma bisogna cercare di guardare oltre, con l’aiuto di un peacekeeper internazionale, un funzionario di lungo corso (Onu, Osce, Nato) che ha sempre tentato imprese impossibili cercando la pace anche sotto le bombe, con l’obbligo “ufficiale” di equidistanza tra le parti. La sua esperienza del mondo islamico con le rispettive distinzioni (Iraq, Afghanistan, Kosovo, Albania, Bosnia) ci può soccorrere, immaginando uno scenario possibile per il dopo.
– Andrea Angeli, il ministro degli Esteri Tajani ha ipotizzato il modello Unmik in Kosovo tra le opzioni per il dopoguerra a Gaza. Lei ha prestato servizio nell’amministrazione temporanea Onu a Pristina e ci è rimasto molti anni: è un’ipotesi ragionevole?
Deve essere chiaro che si tratta di un’iniziativa ambiziosa. In Kosovo la maggioranza della popolazione nel giugno del ’99 ci accolse lanciando fiori, a Gaza l’atteggiamento potrebbe essere differente. Detto questo, la gravità della situazione richiede un’attenta valutazione anche delle proposte più ardite. E non dimentichiamo che un’eventuale supervisione amministrativa delle Nazioni Unite potrebbe mettere d’accordo Usa e Russia-Cina, aspetto non da poco di questi tempi.
– Altri hanno parlato di estensione del modello Unifil-Libano
E’ un’idea valida, ma riguarderebbe solo l’aspetto dell’interposizione ai confini di Gaza. Il nodo principale è chi amministrerà la Striscia e mi pare che i principali attori la pensino differentemente.
– Cosa rischiano i 1072 militari italiani oggi in Libano?
Il pericolo nelle missioni di pace è sempre dietro l’angolo, specie in teatri di guerra in ebollizione come il confine libanese.
– La missione Unifil ha un’impronta italiana…
Direi di più. Da 40 anni sono gli elicotteristi italiani ad assicurare
gli spostamenti veloci. Più ancora, il riassetto e ampliamento della intera spedizione nel 2006 – a seguito della seconda guerra del Libano – scaturì da una decisa offensiva diplomatica Prodi-d’Alema. E nel corso degli anni a cadenza biennale si sono alternati comandanti italiani dell’intera spedizione, sempre all’altezza della situazione, e non solo per capacità professionali.
– E per cos’altro?
Dai tempi del generale Angioni nell’82, proseguendo con le politiche di quegli anni portate avanti da Andreotti e Craxi, l’Italia è considerata dalle varie parti un “honest broker”, come si dice in gergo diplomatico. Una consolidata attitudine all’intermediazione che ha favorito l’opera dei comandanti italiani che si sono succeduti.
– Tornando all’Onu, le accuse all’Unrwa – l’agenzia di assistenza ai rifugiati palestinesi – di essere collusa con Hamas sono pesanti. Questo può influire su un futuro ruolo delle Nazioni Unite nella regione?
Lo staff locale delle missioni internazionali è da sempre preso tra due fuochi: sono e rimarranno cittadini del Paese che ospita la missione, una particolare vicinanza con la popolazione del posto è inevitabile. Per quanto riguarda l’Unrwa lo è ancor di più. Lo stesso acronimo dell’organizzazione abbrevia due parole, Relief e Work, soccorso e lavoro, la contiguità è nella natura delle cose. A Tel Aviv lo sanno bene, non credo che sia un ostacolo a un eventuale ruolo Onu.
– Anche il segretario generale Guterres viene accusato di parzialità. È così?
In realtà, addosso al numero uno dell’Onu sono piovute critiche sia da Hamas che da Israele; non è la prima volta per un alto ufficiale delle Nazioni Unite di trovarsi tra due fuochi ed è la miglior prova di imparzialità.
– Cosa prevedere dunque?
Tutti i futuri dopoguerra in clima di nuova guerra fredda saranno molto difficili, con un Consiglio di sicurezza che avrà crescenti difficoltà a raggiungere l’unità dei cinque membri permanenti. A Gaza si aggiunge il catastrofico livello di distruzione e di violenza. Difficile, con tutta la buona volontà, essere ottimisti.
– In conclusione, Gilles Kepel, tra i maggiori esperti dell’Islam politico, ha scritto che il Jihad islamico, la guerra santa, è in declino. Alla luce dei fatti non sembra proprio. Nei paesi islamici dov’è stato impegnato, ha notato un declino oppure un incendio che si propaga?
L’aumento del radicalismo islamico è sotto gli occhi di tutti, basterebbe fare una lista dei luoghi attualmente off-limits, in Medio Oriente, in Africa e non solo, per i rischi legati al Jihad.
Enzo Polverigiani
enzo.polve@gmail.com
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*Andrea Angeli, funzionario italiano delle Nazioni Unite in pensione, ha agito in diversi scenari di guerra per l’Organizzazione.
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