L’imperativo di Netanyahu in Israele: “Andare avanti” nonostante tutto

Il premier israeliano tira dritto e esclude un cessate il fuoco duraturo con Hamas

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Editoriale
Eric Salerno
2 novembre 2023

Israele va avanti. Lunedì sera il premier Netanyahu è stato chiaro, o quasi. Le iniziative umanitarie – ha ripetuto nel suo inglese impostato e per anni studiato di fronte alle telecamere americane – sono importanti. Non è assolutamente contrario all’aiuto ai civili di Gaza se medicine, acqua, prodotti alimentari e soprattutto benzina non finiscono in mano ad Hamas ma le operazioni militari devono andare avanti. L’obiettivo strategico di eliminare fisicamente i leader e le truppe del movimento integralista palestinese resta prioritario.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu arriva per una conferenza stampa nella base militare di Kirya a Tel Aviv, Israele, 28 ottobre 2023. Credit EPA/ABIR SULTAN /

Gli ostaggi? Donne, bambini, uomini e militari rapiti da Hamas quando i militanti, un vero e proprio esercito, sferrarono il loro attacco-massacro contro Israele sono in cima alle priorità del premier ma lo scambio di tutti in cambio dei prigionieri palestinesi delle carceri israeliane – circa seimila – è da escludere.

Come è ormai chiaro che, per Israele, l’idea stessa di un cessate il fuoco non sarà nemmeno presa in considerazione. Una pausa umanitaria? Forse, se molto limitato nel tempo. E quasi tutti gli alleati di Israele, anche se si dicono preoccupati per quello che potrebbe succedere nei prossimi giorni, sono spaventati dell’idea da più parti ventilata-minacciata di un allargamento della guerra da Gaza ad altri settori, ad altri attori nel complesso gioco di un Medio Oriente che potrebbe estendersi a raggiera, come la classica pietra nello stagno.

Il giornale londinese The Guardian ha raccontato come un deputato conservatore è stato licenziato dal suo incarico di governo dopo aver rotto i ranghi e sollecitato il premier Rishi Sunak a sostenere un cessate il fuoco permanente a Gaza.

Paul Bristow, in una lettera di due pagine al primo ministro la scorsa settimana, aveva detto che i civili palestinesi a Gaza stavano affrontando una “punizione collettiva” a seguito dell’assedio e degli attacchi aerei di Israele sulla scia dell’attacco di Hamas del 7 ottobre. “Un cessate il fuoco permanente salverebbe vite umane e consentirebbe una continua colonna di aiuti umanitari [per] raggiungere le persone che ne hanno più bisogno”, aveva scritto.

Sulla sua pagina Facebook, Bristow ha poi aggiunto: “I palestinesi non sono Hamas. Cerco senza successo di capire come Israele possa essere più sicuro dopo migliaia di morti di palestinesi innocenti. Non dovrebbero subire punizioni collettive per i crimini di Hamas”.

Il fumo esce dagli edifici residenziali dopo gli attacchi aerei israeliani nel quartiere di Tel al-Hawa a Gaza City, 30 ottobre 2023 ANSA/EPA/MOHAMMED SABE

Nella sua conferenza stampa dell’altra sera, Netanyahu aveva ancora una volta decisamente respinto le richieste di un cessate il fuoco con Hamas. “Questo – ha insistito – è un momento di guerra” e combattere Hamas a Gaza è il modo migliore per liberare gli ostaggi. Guerra, dunque, a Gaza e non soltanto.

Sono giorni che gli agenti dello Shin Bet – servizi segreti interni – e reparti militari israeliani stanno setacciando la Cisgiordania occupata alla ricerca di noti – e meno noti – dirigenti e militanti di Hamas. I palestinesi uccisi dal 7 ottobre a oggi sono oltre cento, i feriti non si contano, gli arrestati hanno portato a oltre seimila i detenuti nella carceri israeliane. Soltanto manifestare a parole sostegno ad Hamas o ad altre organizzazioni che non siano l’Anp o l’Olp significa arresto e una condanna a due anni di prigione, senza appello.

Ordinaria amministrazione in tempi di guerra si potrebbe dire se non fosse per il fatto che molti dei morti e dei feriti palestinesi sono vittime dei coloni israeliani provenienti dagli insediamenti più estremisti.

“I coloni armati – ha raccontato l’inviato del Washington Post nella Cisgiordania occupata – hanno iniziato a vagare per la piccola comunità beduina del Wadi Siq quasi ogni giorno dopo il 7 ottobre, minacciando i palestinesi di massacro se si fossero rifiutati di andarsene, secondo Tariq Mustafa.

“Via da qui; vai in Giordania”, hanno gridato i coloni in arabo prima di abbattere le tende dei beduini. “Uno dei coloni è andato via con l’auto di Mustafa, costringendolo a camminare con sua moglie e i suoi tre figli verso la città più vicina. È fuggito dalla sua casa nella piccola comunità beduina di Wadi Siq nel vicino villaggio di Taybeh con la sua famiglia dopo minacce e attacchi da parte dei coloni. Non pensa che riuscirà mai a tornare a casa.

“La guerra a Gaza ha dato il via libera ai coloni. Prima, ci urlavano di andare a Ramallah. Ora ci stanno dicendo di andare fino in Giordania”.

L’esercito tende a chiudere un occhio e soltanto le azioni più clamorose vengono notate e denunciate come la distribuzione, l’altro giorno, di volantini in arabo indirizzati ai palestinesi minacciando loro di una nuova Nakba, la parola usata dai palestinesi per definire la loro cacciate dalla Palestina dagli ebrei nella guerra del 1948. “Se volete vivere andate via, andate in Giordania, questa è la nostra terra, non la vostra, il senso del messaggio-minaccia tanto grave da convincere lo stesso presidente Biden a invitare Israele a maggiore cautela, a controllare e fermare i coloni, a mettere un freno agli estremisti israeliani.

Rafforzati dai loro rappresentanti nel governo e della guerra, a Gaza, che oggi sembra non solo vendetta ma anche parte di un piano per cacciare l’intera popolazione palestinese fuori da quel lembo di terra. Dove? Nel Sinai egiziano? Dicono molti a Tel Aviv con l’idea di consentire a Israele e non solo ai coloni israeliani di tornare nella striscia dove si erano stabiliti in riva al Mediterraneo fino a 2005 e alla decisione del governo Sharon di chiudere tutti gli insediamenti illegali in mezzo agli arabi.

Non soltanto per i coloni, la “terra promessa” e quella che va dal Mediterraneo al fiume Giordano. Buona parte della popolazione israeliana n’è sempre più convinta. Soltanto – sostengono non solo le destre – con la realizzazione del vecchio sogno-disegno del sionismo si può sperare nella sicurezza, forse, nella pace.

Sulla scelte e decisioni di Biden, in questo anno pre-elettorale conta molto il fatto che anche molti fondamentalisti cristiani negli Stati Uniti (elettori repubblicani ma sostenitori di Israele) vedrebbero la fine del conflitto con la sconfitta dei palestinesi e la trasformazione di Israele in uno stato ebraico senza la presenza di cittadini di altre religioni, soprattutto musulmani.

Eric Salerno
Eric2sal@yahoo.com
X: @africexp

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