Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
28 ottobre 2023
Le due fazioni sudanesi in conflitto dal 15 aprile scorso, si sono nuovamente sedute al tavolo delle trattative a Gedda in Arabia Saudita giovedì scorso, sotto la mediazione di Riyad e Washington. Gli scorsi dialoghi di pace sono stati interrotti all’inizio dell’estate.
Questa volta partecipa anche IGAD (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, un’organizzazione internazionale politico-commerciale formata dai Paesi del Corno d’Africa), rappresentata a Gedda dal suo segretario esecutivo, Workneh Gebeyehu, ex ministro degli Esteri etiopico, che ha raggiunto i mediatori statunitensi e sauditi giovedì, sperando che finalmente si possa raggiungere un cessate il fuoco umanitario. Non si sa se al tavolo dei negoziati si siederanno anche altri membri di IGAD, come delegati del Kenya, Gibuti, Sud Sudan, Etiopia e altri.
Mentre i rappresentanti delle parti in causa, le Rapid Support Forces, capeggiate da Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, da un lato e le forze armate sudanesi (SAF) di Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, presidente del Consiglio Sovrano e di fatto capo dello Stato, dall’altro, parlano di pace, la guerra infuria nel Paese.
I violenti combattimenti degli ultimi giorni e l’annuncio delle RSF di aver preso Nyala, capoluogo della provincia del Darfur meridionale, mettono fortemente in dubbio le reali intenzioni delle due fazioni belligeranti. Vogliono veramente raggiungere la pace?
Dall’inizio di ottobre, le RSF hanno mobilitato migliaia di combattenti tribali dal Darfur centrale, occidentale e orientale per sostenerli nella conquista di Nyala. Secondo un comunicato rilasciato dai vertici degli ex janjaweed, SAF avrebbe subito imponenti perdite: oltre 2mila soldati ammazzati e parecchi mezzi militari distrutti. Inoltre avrebbero preso possesso di tutto l’equipaggiamento bellico della base delle forze armate nella città.
I morti civili non si contano più. Si parla di oltre 9mila, bilancio certamente sottostimata dalle Nazione Unite, mentre ben più di 5,6 milioni di persone hanno dovuto lasciare le proprie case per fuggire alla furia di bombardamenti e combattimenti. Oltre la metà della popolazione dipende dagli aiuti umanitari.
Tra i fuggiaschi oltre un milione ha cercato protezione nei Paesi limitrofi; purtroppo la loro situazione nei campi per rifugiati è tutt’altro che rosea. Dall’inizio delle ostilità, in aprile, oltre 423.000 sudanesi hanno attraversato il confine con il Ciad, ma le ONG e le agenzie ONU presenti sul posto sono a corto di fondi per far fronte alla terribile emergenza umanitaria. I rifugiati fanno fatica a nutrirsi e all’inizio del mese, secondo quanto ha riportato la BBC, 42 sudanesi sarebbero morti nel Ciad orientale a causa della grave carenza di cibo e acqua potabile e della diffusione di malattie, come la malaria e altre.
Pur di mettere fine alla guerra, anche la società civile e politica sudanese si sta muovendo. Una delegazione di rappresentanti di varie organizzazioni e partiti si sono riuniti questa settimana a Addis Abeba per far pressione sui militari con un progetto politico alternativo credibile. Il comitato preparatorio del Fronte civile per fermare la guerra, che comprende una sessantina di persone, ha scelto come suo leader l’ex primo ministro sudanese Abdallah Hamdok.
Secondo diverse fonti militari sul campo, le RSF controllano la maggior parte della capitale Khartoum e della città gemelle Omdurman e Bahri e continuano a fare breccia nel territorio controllato dall’esercito. Hemetti e i suoi uomini hanno in mano la vasta regione occidentale del Darfur, Nyala nel Sud Darfur e si sono impadroniti anche di gran parte del Kordofan settentrionale, che si trova lungo la principale rotta tra Khartoum e il Darfur, dove le RFS portano rifornimenti da Libia, Ciad e Repubblica Centrafricana.
Tuttavia nove dei 18 stati sudanesi, situati al centro, est e nord del Paese, sono completamente nelle mani del SAF, compreso Port Sudan, il principale porto marittimo, dove si trova anche l’unico aeroporto funzionante per i passeggeri che viaggiano all’estero. L’esercito ha dichiarato Port Sudan come capitale alternativa e molte missioni diplomatiche straniere hanno portato la loro sede nella città.
Le istituzioni governative del Sudan sono controllate dall’esercito, compresi i ministeri delle Finanze e degli Esteri, nonché la Banca Centrale, anche se molti dei principali edifici pubblici del Paese sono in mano ai paramilitari di Hemetti.
A Khartoum, Bahri e Omdurman, le RSF controllano la maggior parte degli edifici governativi e altri luoghi strategici, tra questi la raffineria di petrolio al-Jaili, che dista 70 chilometri dalla capitale, il palazzo presidenziale, l’aeroporto di Khartoum e l’edificio della radiotelevisione di Stato a Omdurman.
Insomma, è evidente che il Paese è diviso, spartito tra i due generali. Entrambe le parti hanno dichiarato l’intenzione di istituire un proprio governo in Sudan – una mossa che ricorda la Libia – con una parte governata dalle Forze Armate Sudanesi (SAF) e un’altra dalle RSF.
Al-Burhan ha minacciato di istituire un gabinetto a Port Sudan. Hemetti ha replicato che un governo a Port Sudan lo spingerebbe a crearne uno rivale nella capitale Khartoum o in un’altra città sotto il controllo dei suoi uomini.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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