Steven Erlander*
Berlino, 8 ottobre 2023
(Alla fine del testo in italiano l’articolo originale in inglese)
A quasi 50 anni dalla guerra dello Yom Kippur del 1973, Israele è stato nuovamente colto di sorpresa da un attacco improvviso, che ricorda in modo sorprendente come la stabilità in Medio Oriente rimanga un sanguinoso miraggio.
A differenza dell’ultima serie di scontri con le forze palestinesi a Gaza negli ultimi tre anni, questo sembra essere un conflitto su larga scala organizzato da Hamas e dai suoi alleati, con lanci di razzi e incursioni nel territorio israeliano, con morti e ostaggi israeliani.
L’impatto psicologico sugli israeliani è stato paragonato allo shock dell’11 settembre in America. Quindi, dopo che l’esercito israeliano avrà respinto l’attacco iniziale palestinese, si porrà il problema di cosa fare dopo. Ci sono poche opzioni valide per il primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha dichiarato guerra e sta subendo pressioni per una risposta militare importante.
Considerando che finora sono morti 250 israeliani e che un numero imprecisato di persone è stato preso in ostaggio da Hamas, non si può escludere un’invasione israeliana di Gaza, e persino una temporanea rioccupazione del territorio, cosa che i governi israeliani che si sono succeduti hanno cercato di evitare.
Come ha detto Netanyahu agli israeliani nel dichiarare guerra: “Li combatteremo con una forza e una portata che il nemico non ha ancora conosciuto”, aggiungendo che i gruppi palestinesi pagheranno un prezzo pesante.
Ma una grande guerra potrebbe avere conseguenze impreviste. Sarebbe probabile che produca ingenti perdite palestinesi – civili e combattenti – interrompendo gli sforzi diplomatici del presidente statunitense Joe Biden e di Netanyahu, primo ministro israeliano, per ottenere il riconoscimento saudita di Israele in cambio di garanzie di difesa da parte degli Stati Uniti.
Ci sarebbero anche pressioni sugli Hezbollah, il gruppo militante sostenuto dall’Iran che controlla il Libano meridionale, per aprire un secondo fronte nel nord di Israele, come ha fatto nel 2006 dopo la cattura di un soldato israeliano e fatto prigioniero a Gaza.
L’Iran, nemico giurato di Israele, è un importante sostenitore di Hamas e degli Hezbollah e ha fornito armi e intelligence a entrambi i gruppi.
Il conflitto unirà Israele al proprio governo, almeno per un po’, con l’opposizione che annullerà le manifestazioni previste contro i cambiamenti giudiziari proposti da Netanyahu e obbedirà all’appello dei riservisti. Questo darà a Netanyahu “piena copertura politica per fare ciò che vuole”, ha dichiarato Natan Sachs, direttore del Centro per la Politica del Medio Oriente della Brookings Institution.
Tuttavia, ha aggiunto Sachs, Netanyahu ha respinto in passato le richieste di inviare migliaia di truppe a Gaza per cercare di distruggere i gruppi armati palestinesi come Hamas, visti i costi e l’inevitabile domanda su cosa accadrà il giorno dopo.
“Ma l’impatto psicologico per Israele è simile a quello dell’11 settembre”, ha specificato infine, “Quindi i costi potrebbero essere ben diversi questa volta”.
La domanda sarà sempre la stessa: “cosa succederà dopo”, ha detto Mark Heller, ricercatore senior presso l’Istituto israeliano per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale. Quasi ogni anno ci sono state operazioni militari israeliane limitate nei territori occupati, ma senza alcuna soluzione.
“Ci sono già molte pressioni per un’incursione su larga scala, per “farla finita con Hamas”, ma non credo che risolverà nulla nel lungo periodo”, ha poi aggiunto Heller.
Ma Carl Bildt, ex primo ministro e ministro degli Esteri svedese, ha affermato che un attacco israeliano su larga scala a Gaza è quasi inevitabile, soprattutto se soldati israeliani sono stati presi in ostaggio. “Se Hamas ha preso dei soldati israeliani come prigionieri e li ha portati a Gaza, un’operazione israeliana su larga scala a Gaza sembra altamente probabile”, ha dichiarato su X (ex Twitter). “Un’altra guerra”. Lo stesso presumibilmente varrebbe per i cittadini israeliani.
Israele e Netanyahu sono stati cauti nell’inviare forze di terra a Gaza. Anche nel 2002, quando Ariel Sharon era primo ministro e le forze israeliane schiacciarono una rivolta palestinese in Cisgiordania, il governo scelse di evitare l’invio di truppe supplementari significative a Gaza, dove allora erano presenti insediamenti israeliani.
Nel 2005, Israele ha ritirato unilateralmente i propri soldati e cittadini da Gaza, pur mantenendo il controllo effettivo di ampie zone della Cisgiordania occupata. Il fallimento di quel ritiro nel garantire qualsiasi tipo di accordo di pace duraturo, ha lasciato Gaza quasi orfana, in gran parte tagliata fuori dagli altri palestinesi della Cisgiordania e praticamente completamente isolata sia da Israele che dall’Egitto, che controllano i confini di Gaza e la sua costa. I palestinesi chiamano spesso Gaza “una prigione a cielo aperto”.
Dopo il ritiro israeliano da Gaza e il conflitto del 2006, una lotta interna tra il movimento Fatah del presidente palestinese Mahmoud Abbas e il movimento islamista più radicale Hamas, si è conclusa con la presa di controllo del territorio da parte di Hamas nel 2007, spingendo Israele a cercare di isolare ulteriormente Gaza.
Anche durante il lungo conflitto del lungo del 2008 e del 2009, le forze israeliane sono entrate a Gaza e nei suoi centri abitati, ma hanno scelto di non muoversi troppo in profondità nel territorio o di rioccuparlo, con un cessate il fuoco mediato dall’Egitto dopo un conflitto durato tre settimane.
I governi israeliani che si sono succeduti insistono sul fatto che, dopo il ritiro del 2005, non hanno più responsabilità su Gaza. Ma dato il controllo israeliano sui confini e la sua schiacciante superiorità militare, molti gruppi come B’Tselem, che monitora i diritti umani nei territori occupati, sostengono che Israele mantenga responsabilità e obblighi legali significativi per Gaza, in base al diritto umanitario internazionale.
Sebbene non sia stato chiaro perché Hamas abbia scelto di attaccare ora, una delle risposte potrebbero essere i crescenti legami di Israele con il mondo arabo, in particolare con l’Arabia Saudita, che ha negoziato un trattato di difesa con gli Stati Uniti in cambio di una normalizzazione delle relazioni con Israele, potenzialmente a scapito dei palestinesi.
Questa è l’opinione di Amberin Zaman, analista di Al-Monitor, un sito web di notizie con sede a Washington che si occupa di Medio Oriente. “La risposta di Israele agli attacchi di oggi sarà probabilmente di una portata tale da far arretrare gli sforzi statunitensi per la normalizzazione saudita-israeliana, se non addirittura da farli fallire del tutto”, ha affermato in un messaggio su X, ex Twitter.
L’Arabia Saudita non riconosce Israele dalla sua fondazione nel 1948 e finora aveva segnalato che non avrebbe nemmeno preso in considerazione la normalizzazione delle relazioni, finché Israele non avrebbe accettato di consentire la creazione di uno Stato palestinese.
Ma di recente anche il sovrano de facto dell’Arabia Saudita, il principe Mohammed bin Salman, ha affermato pubblicamente che una sorta di accordo con Israele sembrava plausibile. In un’intervista rilasciata a Fox News il mese scorso, ha sottolineato che discorsi sulla normalizzazione erano “per la prima volta reali”.
Ora questo sarà messo in discussione, a seconda di quanto durerà il conflitto e del numero di morti e feriti.
Ma Sachs di Brookings sostiene che gli obiettivi di Hamas potrebbero essere più semplici: prendere ostaggi per liberare i prigionieri palestinesi della Cisgiordania e di Gaza nelle carceri israeliane.
Aaron David Miller, ex diplomatico americano che si occupa di Medio Oriente, ha detto che Hamas è stato frustrato dalle quantità di denaro che arrivano dai Paesi Arabi a Gaza e dalle restrizioni sui lavoratori che ottengono il permesso di lavorare in Israele. “Per molti versi si tratta di un attacco di prestigio, per ricordare agli israeliani che siamo qui e possiamo farvi del male in modi che non potete prevedere”, ha aggiunto infine.
Israele, scioccato, dovrà ora fare i conti con i risultati di quello che Miller, ora al Carnegie Endowment, ha definito il suo “eccesso di fiducia e compiacimento e la mancanza di volontà di immaginare che Hamas potesse lanciare un attacco transfrontaliero come questo”.
Le ramificazioni della guerra e le sue conseguenze saranno “di vasta portata e richiederanno molto tempo per manifestarsi”, ha detto Sachs. Ci saranno commissioni d’inchiesta sulle agenzie militari e di intelligence “e anche i vertici politici non sfuggiranno alle proprie responsabilità”.
Ma prima, come ha notato Heller, viene la guerra. “E queste cose tendono a sfuggire al controllo”
Steven Erlanger*
*Steven Erlanger è il capo del servizio diplomatico del Times in Europa, con sede a Berlino. In precedenza ha lavorato a Bruxelles, Londra, Parigi, Gerusalemme, Berlino, Praga, Belgrado, Washington, Mosca e Bangkok.
Nearly 50 years to the day after the Yom Kippur war of 1973, Israel has again been taken by surprise by a sudden attack, a startling reminder that stability in the Middle East remains a bloody mirage.
Unlike the last series of clashes with Palestinian forces in Gaza over the last three years, this appears to be a full-scale conflict mounted by Hamas and its allies, with rocket barrages and incursions into Israel proper, and with Israelis killed and captured.
The psychological impact on Israelis has been compared to the shock of Sept. 11 in America. So after the Israeli military repels the initial Palestinian attack, the question of what to do next will loom large. There are few good options for Prime Minister Benjamin Netanyahu, who has declared war and is being pressured into a major military response.
Given that 250 Israelis have died so far and an unknown number been taken hostage by Hamas, an Israeli invasion of Gaza — and even a temporary re-occupation of the territory, something that successive Israeli governments have tried hard to avoid — cannot be ruled out.
As Mr. Netanyahu told Israelis in declaring war: “We will bring the fight to them with a might and scale that the enemy has not yet known,” adding that the Palestinian groups would pay a heavy price.
But a major war could have unforeseen consequences. It would be likely to produce sizable Palestinian casualties — civilians as well as fighters — disrupting the diplomatic efforts of President Biden and Mr. Netanyahu to bring about a Saudi recognition of Israel in return for defense guarantees from the United States.
There would also be pressure on Hezbollah, the Iran-backed militant group that controls southern Lebanon, to open up a second front in northern Israel, as it did in 2006 after an Israeli soldier was captured and taken prisoner in Gaza.
Iran, a sworn enemy of Israel, is an important backer of Hamas as well as Hezbollah and has supplied both groups with weapons and intelligence.
The conflict will unite Israel behind its government, at least for a while, with the opposition canceling its planned demonstrations against Mr. Netanyahu’s proposed judicial changes and obeying calls for reservists to muster. It will give Mr. Netanyahu “full political cover to do what he wants,” said Natan Sachs, director of the Center for Middle East Policy of the Brookings Institution.
Nevertheless, he added, Mr. Netanyahu has in the past rejected calls to send thousands of troops into Gaza to try to destroy armed Palestinian groups like Hamas, given the cost and the inevitable question of what happens the day after.
“But the psychological impact of this for Israel is similar to 9/11,” he said. “So the calculus about cost could be quite different this time.”
The question will always be what happens afterward, said Mark Heller, a senior researcher at Israel’s Institute for National Security Studies. Nearly every year there have been limited Israeli military operations in the occupied territories, but they have not provided any solutions.
“There is a lot of heavy pressure already for a large-scale incursion, to ‘finish with Hamas,’ but I don’t think it will solve anything in the longer run,” Mr. Heller said.
But Carl Bildt, the former Swedish prime minister and foreign minister, said a major Israeli assault on Gaza was almost inevitable, particularly if Israeli soldiers were taken hostage. “If Hamas has taken Israeli soldiers as prisoners and taken them to Gaza, a full-scale Israeli operation into Gaza looks highly likely,” he said on X. “Another war.” The same presumably would hold true for Israeli citizens.
Israel and Mr. Netanyahu have been wary of sending ground forces into Gaza. Even in 2002, when Ariel Sharon was prime minister and Israeli forces crushed a Palestinian uprising in the West Bank, the government chose to avoid sending significant extra forces into Gaza, where it then had Israeli settlements.
Israeli unilaterally withdrew its soldiers and citizens from Gaza in 2005, while retaining effective control of large parts of the occupied West Bank. The failure of that withdrawal to secure any sort of lasting peace agreement has left Gaza a kind of orphan, largely cut off from other Palestinians in the West Bank and almost entirely isolated by both Israel and Egypt, which control Gaza’s borders and its seacoast. Palestinians often call Gaza “an open-air prison.”
After the Israeli withdrawal from Gaza and the conflict of 2006, an internal struggle between the Fatah movement of the Palestinian president, Mahmoud Abbas, and the more radical Islamist Hamas movement ended with Hamas taking control of the territory in 2007, prompting Israel to try to isolate Gaza even further.
Even in an extended conflict of 2008 and 2009, Israeli forces entered Gaza and its population centers but chose not to move too deeply into the territory or to reoccupy it, with a cease-fire brokered by Egypt after three weeks of warfare.
Successive Israeli governments insist that after the 2005 withdrawal, it no longer has responsibility for Gaza. But given Israel’s control over the borders and its overwhelming military advantage, many groups like B’Tselem, which monitors human rights in the occupied territories, argue that Israel retains significant legal responsibilities and obligations for Gaza under international humanitarian law.
While Hamas has not been clear about why it chose to attack now, it may be a response to growing Israeli ties to the Arab world, in particular to Saudi Arabia, which has been negotiating a putative defense treaty with the United States in return for normalizing relations with Israel, potentially to the neglect of the Palestinians.
That is the view of Amberin Zaman, an analyst for Al-Monitor, a Washington-based news website that covers the Middle East. “Israel’s response to today’s attacks will likely be of a scale that will set back U.S. efforts for Saudi- Israeli normalization, if not torpedo them altogether,” she said in a message on X, formerly Twitter.
Saudi Arabia has not recognized Israel since it was founded in 1948 and until now had signaled that it would not even consider normalizing relations until Israel agreed to allow the creation of a Palestinian state.
But recently even the de facto ruler of Saudi Arabia, Prince Mohammed bin Salman, has gone public with affirmations that some sort of deal with Israel seemed plausible. In an interview with Fox News last month, he said that talk of normalization was “for the first time, real.”
That will now be in question, depending on how long this conflict lasts and with what level of dead and wounded.
But Mr. Sachs of Brookings says that the goals of Hamas may be simpler: to take hostages in order to free Palestinian prisoners from both the West Bank and Gaza in Israeli jails.
Aaron David Miller, a former American diplomat dealing with the Mideast, said that Hamas had been frustrated with the amounts of money coming into Gaza from Arab countries and restrictions on workers getting permission to work in Israel. “In many ways this is a prestige strike, to remind the Israelis that we’re here and can hurt you in ways you can’t anticipate,” he said.
Israel, shocked, will now have to deal with the results of what Mr. Miller, now with the Carnegie Endowment, called its “overconfidence and complacency and unwillingness to imagine that Hamas could launch a cross-border attack like this.”
The ramifications of the war and its aftermath will be “far-reaching and take a long time to manifest,” Mr. Sachs said. There will be commissions of inquiry into the military and intelligence agencies “and the political echelon won’t escape blame, either.”
But first, as Mr. Heller noted, comes the war. “And these things tend to get out of control,” he said.
Steven Erlanger*
*Steven Erlander is The New York Times’s chief diplomatic correspondent in Europe, based in Berlin. He previously reported from Brussels, London, Paris, Jerusalem, Berlin, Prague, Belgrade, Washington, Moscow and Bangkok.
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