Si è parlato poco, in questi giorni, all’Onu dei conflitti che tormentano il Medio Oriente ma gli Usa, a un anno dalle elezioni presidenziali sono alle prese con una quasi isterica pre-campagna elettorale legata anche alle sorti dell’attuale inquilino della Casa Bianca e alla battaglia per il Congresso.
Israele, più forse di altre volte, è una pedina importante. La rivolta di una parte della popolazione ebraica dello stato contro il premier Netanyahu e la sua coalizione di estrema destra influisce molto sugli ebrei americani divisi tra il desiderio di difendere la democrazia israeliana in pericolo e dall’altra parte mostrare il loro sostegno di sempre per il paese a cui sono o si sentono legati.
L’altro giorno Thomas Friedman, storico editorialista del New York Times, che incontrai molti anni fa a Gerusalemme dove era andato a commentare l’Intifada palestinese (aveva appena vinto il Pulitzer per i suoi reportage sulla guerra in Libano e il suo libro su quel conflitto), ha suggerito al presidente Biden di rivolgere tre domande precise a Netanyahu.
Non sappiamo cosa si sono detti nel loro breve incontro ai margini dell’Assemblea generale dell’Onu. Per il futuro dei palestinesi, la prima domanda indicata dal collega americano ci pare la più importante.
“Primo Ministro Netanyahu, l’accordo di coalizione del suo governo è il primo nella storia di Israele a definire l’annessione della Cisgiordania come uno dei suoi obiettivi – o, come dice, l’applicazione della “sovranità israeliana in Giudea e Samaria”.
Ma in precedenza hai sostenuto il piano di pace di Trump per il Medio Oriente che proponeva di dividere la Cisgiordania, con Israele che controllava circa il 30% e lo Stato palestinese che otteneva circa il 70%, anche se con strette garanzie di sicurezza e nessuna contiguità. Intendete annettere la Cisgiordania o ne negozierete la futura disposizione con i palestinesi? Sì o no? Dobbiamo sapere. Perché se intendi annetterti, tutti i tuoi accordi di normalizzazione con gli stati arabi crolleranno e non saremo in grado di difenderti alle Nazioni Unite dalle accuse di costruzione di uno stato di apartheid”.
La domanda non tiene molto conto del passato: né del vecchio discorso di Arafat, né delle numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza mai rispettate da Israele riguardo i territori palestinesi. Una parte del mondo ha ricordato pochi giorni fa quella cerimonia sul prato della Casa Bianca in cui Arafat e Rabin hanno stretto la mano accettando gli accordi di pace negoziati a Oslo.
Sono passati 30 anni e la situazione sul terreno è cambiata. Sono aumentati gli insediamenti, le barriere e le strade che consentono-impongono israeliani e palestinesi a evitarsi. La violenza ha ripreso fiato anche se non esiste una intifada organizzata. E forse ancora più importante una generazione nuova, da una parte e dall’altra, non riuscirà quasi mai a incontrarsi da pari. La maggioranza dei giovani arabi vede soltanto giovani israeliani in divisa e armati e sempre più aggressivi. Gli scontri in Cisgiordania si sono intensificati: dall’inizio del 2023 fino ad agosto sono morti almeno 200 palestinesi e 21 israeliani.
E, come quasi sempre, il rituali incontri annuale a New York non sembrano preoccupare molto i non molti leader del mondo o i loro rappresentanti.
Eric Salerno