EDITORIALE
Eric Salerno
Roma, 21 settembre 2023
“L’umanità non crede più nell’Onu”, ha detto con enfasi e tristezza Volodymyr Zelensky davanti all’Assemblea generale delle Nazioni unite. “Purtroppo si trova in stallo quando bisogna risolvere un conflitto”.
Quasi cinquanta anni fa, il 14 novembre 1974, un altro leader anche lui in divisa militare si presentò davanti ai rappresentanti di mezzo mondo. Yasser Arafat sperava nell’assise internazionale. “Questa è un’occasione molto importante. La questione della Palestina viene riesaminata dalle Nazioni Unite e consideriamo questo passo come una vittoria per l’Organizzazione mondiale tanto quanto una vittoria per la causa del nostro popolo. Ciò indica nuovamente che le Nazioni Unite di oggi non sono le Nazioni Unite del passato, proprio come il mondo di oggi non è il mondo di ieri”.
Lo scetticismo dell’attore diventato presidente dell’Ucraina è giustificato se solo guardiamo alla storia del popolo palestinese e alle speranze del suo storico leader.
Zelensky vorrebbe togliere il potere di veto alla Russia che, diceva, “occupa illegalmente” uno dei cinque seggi permanenti del Consiglio di sicurezza. A parere suo – e anche di molti membri dell’Onu – uno stato che viola la Carta delle Nazioni unite non dovrebbe avere diritto di veto al Consiglio di sicurezza.
Una revisione della Carta significherebbe anche affrontare l’uso del veto per difendere le azioni illegali degli altri membri. E questo ci riporta in Medio Oriente. Al conflitto più lungo della storia moderna, come viene definito la guerra per la Palestina. Gli Stati Uniti forniscono un sostegno politico su larga scala a Israele e Washington ha usato il potere di veto del Consiglio di Sicurezza 83 volte di cui 42 contro risoluzioni che condannano il governo israeliano.
Si è parlato poco, in questi giorni, all’Onu dei conflitti che tormentano il Medio Oriente ma gli Usa, a un anno dalle elezioni presidenziali sono alle prese con una quasi isterica pre-campagna elettorale legata anche alle sorti dell’attuale inquilino della Casa Bianca e alla battaglia per il Congresso.
Israele, più forse di altre volte, è una pedina importante. La rivolta di una parte della popolazione ebraica dello stato contro il premier Netanyahu e la sua coalizione di estrema destra influisce molto sugli ebrei americani divisi tra il desiderio di difendere la democrazia israeliana in pericolo e dall’altra parte mostrare il loro sostegno di sempre per il paese a cui sono o si sentono legati.
L’altro giorno Thomas Friedman, storico editorialista del New York Times, che incontrai molti anni fa a Gerusalemme dove era andato a commentare l’Intifada palestinese (aveva appena vinto il Pulitzer per i suoi reportage sulla guerra in Libano e il suo libro su quel conflitto), ha suggerito al presidente Biden di rivolgere tre domande precise a Netanyahu.
Non sappiamo cosa si sono detti nel loro breve incontro ai margini dell’Assemblea generale dell’Onu. Per il futuro dei palestinesi, la prima domanda indicata dal collega americano ci pare la più importante.
“Primo Ministro Netanyahu, l’accordo di coalizione del suo governo è il primo nella storia di Israele a definire l’annessione della Cisgiordania come uno dei suoi obiettivi – o, come dice, l’applicazione della “sovranità israeliana in Giudea e Samaria”.
Ma in precedenza hai sostenuto il piano di pace di Trump per il Medio Oriente che proponeva di dividere la Cisgiordania, con Israele che controllava circa il 30% e lo Stato palestinese che otteneva circa il 70%, anche se con strette garanzie di sicurezza e nessuna contiguità. Intendete annettere la Cisgiordania o ne negozierete la futura disposizione con i palestinesi? Sì o no? Dobbiamo sapere. Perché se intendi annetterti, tutti i tuoi accordi di normalizzazione con gli stati arabi crolleranno e non saremo in grado di difenderti alle Nazioni Unite dalle accuse di costruzione di uno stato di apartheid”.
La domanda non tiene molto conto del passato: né del vecchio discorso di Arafat, né delle numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza mai rispettate da Israele riguardo i territori palestinesi. Una parte del mondo ha ricordato pochi giorni fa quella cerimonia sul prato della Casa Bianca in cui Arafat e Rabin hanno stretto la mano accettando gli accordi di pace negoziati a Oslo.
Sono passati 30 anni e la situazione sul terreno è cambiata. Sono aumentati gli insediamenti, le barriere e le strade che consentono-impongono israeliani e palestinesi a evitarsi. La violenza ha ripreso fiato anche se non esiste una intifada organizzata. E forse ancora più importante una generazione nuova, da una parte e dall’altra, non riuscirà quasi mai a incontrarsi da pari. La maggioranza dei giovani arabi vede soltanto giovani israeliani in divisa e armati e sempre più aggressivi. Gli scontri in Cisgiordania si sono intensificati: dall’inizio del 2023 fino ad agosto sono morti almeno 200 palestinesi e 21 israeliani.
E, come quasi sempre, il rituali incontri annuale a New York non sembrano preoccupare molto i non molti leader del mondo o i loro rappresentanti.
Eric Salerno
Trent’anni gli accordi di Oslo fra Israele e Palestina: ora sono carta straccia