Cornelia I. Toelgyes
3 settembre 2023
Mentre gli occhi del mondo sono puntati sugli ultimi due colpi di Stato (Niger e Gabon), in Sudan si continua a morire quotidianamente dal 15 aprile scorso. Quella data segna l’inizio del conflitto tra Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, capo delle forze armate (SAF) e presidente del Sudan e Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, leader delle Rapid Support Forces (RSF).
Ieri Omdurman, la città gemella di Khartoum al di là del Nilo, è stata teatro di una serie di raid aerei delle forze armate sudanesi, mentre sabato fonti militari hanno affermato di aver anche schierato un gran numero di forze di terra e armi pesanti nel tentativo di consolidare il controllo della città.
Altri attacchi aerei sono seguiti domenica nella capitale. Tali offensive sono volte ad interrompere una via di rifornimento chiave delle RSF. Gli approvvigionamenti provenienti dal Darfur, vengono poi inviati a Omdurman, e in seguito attraverso il Nilo a Bahri (cioè Kharoum nord) e alla capitale Khartoum. Anche sabato, durante i raid, sarebbero morte 20 persone, secondo quanto hanno riferito alcuni volontari.
E’ difficile conoscere il numero preciso delle vittime, gran parte dei feriti non riesce a raggiungere gli ospedali, molti dei quali sono chiusi per mancanza di personale, medicinali e materiale sanitario. Non si riesce neppure a portare i morti negli obitori. Non di rado i deceduti (si parla di 5.000, cifra certamente sottostimata) vengono seppelliti dai parenti o altri, vicino a casa.
Aumentano anche di giorno in giorno le persone costrette a lasciare le proprie abitazioni: per ora sono ben oltre 4,8 milioni, tra questi un milione ha cercato protezione nei Paesi limitrofi, secondo quanto ha riferito l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) questa settimana.
Il sottosegretario generale dell’ONU Martin Griffiths, capo di OCHA, si è espresso in questi termini: “La guerra in Sudan sta alimentando un’emergenza umanitaria di proporzioni epiche”. E ha poi aggiunto: “Il conflitto e la fame, le malattie e gli sfollamenti che ne derivano, minacciano ora di coinvolgere l’intero Paese”. Ha inoltre menzionato di essere preoccupato per la sicurezza dei civili nello Stato di Gezira, il granaio dell’ex protettorato anglo-egiziano.
In alcune regioni le scorte di cibo sono terminate, come nel Kordofan meridionale. Continui scontri e blocchi stradali impediscono agli operatori umanitari di raggiungere i civili che necessitano di cibo e beni di prima necessità. Centinaia di migliaia di bambini sono gravemente malnutriti e rischiano di morire se non curati in tempo.
E proprio in questo Stato, come anche nel Blue Nile, continuano i combattimenti tra i governativi e SPLM-N (Sudan People’s Liberation Mouvent/Army North, capitanata da Abdelaziz Adam Al-Hilu) e le forze SAF; non si esclude che queste aggressioni siano coordinate con le RSF.
Al-Burhan, per la prima volta dall’inizio del conflitto, ha lascito la sua base a Khartoum. Ha visitato le sue truppe in alcune aree sotto il controllo dei governativi, mentre domenica scorsa si è recato a Port Sudan, finora risparmiata dai violenti combattimenti e dove l’aeroporto è ancora attivo.
Il giorno precedente alla partenza per l’Egitto, la prima vista all’estero dopo lo scoppio della guerra, il presidente sudanese ha detto che l’esercito regolare avrebbe sconfitto i paramilitari. Ha poi sottolineato che non avrebbe mai firmato un accordo con le Rapid Support Forces. Mentre ha rincarato la dose da Cassala, città nei pressi del confine con l’Eritrea, dove si è recato oggi. In tale occasione ha precisato: “La guerra terminerà solo con la fine della ribellione”.
Martedì al-Burhan ha incontrato il suo omologo egiziano, Abdel Fattah el-Sisi, a el-Alamein, città sul Mediterraneo, nel nord del Paese, dove i due leader, secondo quanto riferito in un comunicato del Consiglio Sovrano, hanno discusso degli ultimi sviluppi in Sudan e dei legami tra i Paesi confinanti.
In un breve commento rilasciato dall’Egitto, il leader sudanese ha chiesto alla comunità internazionale di avere una visione obiettiva di questo conflitto, iniziato da “un gruppo bramoso di impadronirsi del potere che durante questi mesi di guerra si è macchiato di tutti crimini possibili”.
Ovviamente sono sempre state respinte le accuse delle violenze commesse dall’esercito regolare, accusato da organizzazioni dei diritti umani di aver arrestato centinaia di attivisti, rubato aiuti e ucciso indiscriminatamente civili. Entrambe le fazioni del conflitto sono inoltre accusate dell’arruolamento di bambini soldato.
Al-Burhan dovrebbe recarsi nei prossimi giorni anche in Arabia Saudita, che, insieme agli Stati Uniti aveva tentato una mediazione tra le parti in causa. Ma dopo vari tentativi per arrivare a un cessate il fuoco, poi subito violati, i dialoghi sono falliti.
Domenica scorsa Hemetti ha proposto sul suo account Twitter un piano di pace in 10 punti per porre fine alla guerra. Il capo delle RSF ha chiesto tra l’altro federalismo, giustizia sociale e un esercito unificato.
Osservatori hanno accusato le RSF di aver usato una proposta di pace liberale per apparire come parte indispensabile nel futuro del Sudan. Mentre attivisti e analisti affermano che l’iniziativa della RSF non è altro che una beffa nei confronti del movimento pro-democrazia del Sudan, che chiede un governo civile da quando l’ex presidente Omar al-Bashir è stato spodestato nel 2019.
I paramilitari sono stati accusati di aver rapito residenti, saccheggiato case e ucciso civili disarmati nella capitale Khartoum, per non parlare delle atrocità commesse in Darfur, dove incombe lo spettro della “pulizia etnica”.
Alcune comunità che vivono in questa regione, in particolare i membri dell’etnia Masalit (popolazione locale di origine africana, la cui lingua utilizza caratteri latini, ndr), sono state prese di mira dalla RSF e dalle milizie arabe alleate.
I civili rifugiati in Ciad hanno poi raccontato che i membri di queste due forze li hanno attaccati prima nella loro città e poi anche durante la fuga per raggiungere il vicino Ciad, molti sono stati feriti o uccisi.
Nel frattempo, invece di fornire aiuti umanitari, alcuni Stati alimentano attivamente il conflitto fornendo armi e munizioni. Accuse in tal senso sono state rivolte agli Emirati Arabi Uniti, Paese che sosterebbe Hemetti. Mentre il Regno wahabita è per lo più allineato con il regime al potere.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
Twitter: @cotoelgyes
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