Enzo Polverigiani
Agosto 2023
Sullo sfondo tragico della disfatta, a due anni dalla Grande Fuga da Kabul, si possono sintetizzare così i vent’anni di impegno occidentale in Afghanistan tra guerra vera e propria (inutile negarlo) e iniziative di cooperazione.
Specialmente da parte italiana. Parliamo del Prt, Provincial reconstruction team, che dal 2005 ha finanziato con oltre 60 milioni di euro – stanziati dal ministero della Difesa – molti progetti e ricostruzioni nella provincia di Herat: scuole, strade e ospedali, carcere, aeroporto, restauro della Moschea blu. Ma che soprattutto ha agito in ambito sociale, cercando di migliorare la condizione della donna afghana, che continua ad appassionare e coinvolgere – purtroppo senza prospettive – l’opinione pubblica, e della quale il burqa è il simbolo negativo.
E a questo proposito l’allora comandante, colonnello Vincenzo Grasso, ammetteva: “Purtroppo siamo ancora lontani da una vera parità dei sessi. Il governo proclama che è ora di dare alle donne maggiori responsabilità, ma fra il dire e il fare…Noi facciamo il possibile, ma occorre tempo, e anche coraggio, per andare contro le tradizioni. La società afghana non vede di buon occhio l’imposizione dall’esterno di forme di emancipazione e democrazia”.
Nella scuola elementare di Herat City le maestre, belle ragazze con un’ombra di trucco, erano velate come la direttrice Sina Shaidxar, che spiegava: “Sono tutte donne perché questa è una scuola quasi interamente femminile, con migliaia di bambine. E una donna senza educazione non può essere mamma di figli che dovranno servire la patria. Ringrazio l’Italia, ma ora è fondamentale riuscire ad essere autosufficienti. Anche se mi auguro che gli italiani, una volta partiti, continuino a collaborare con noi”.
Per questo già da anni era diffusa la paura di un giro di vite integralista, di un ritorno alla tradizione più ferocemente maschilista, una volta rientrati i talebani nel governo. Per questo molte donne afghane non abbandonavano volentieri il burqa.
Un messaggio di speranza era arrivato da una delle studentesse di giornalismo all’università di Herat, Nahid Ahmad, fiera di non portare il velo come le colleghe. Grandi occhi neri bistrati, sorriso spigliato, minigonna altrettanto disinvolta.
“Meno di dieci anni fa le donne in Afghanistan erano trattate come schiave. Non potevano studiare, schiacciate sotto il tallone della spietata intransigenza dei talebani. Venivano uccise dai loro stessi mariti e fratelli per un niente. In questi ultimi anni le donne hanno ottenuto più diritti, possono esprimersi quasi liberamente e possono essere parte attiva della comunità. Naturalmente accadono ancora cose orribili tra le mura domestiche, ma ora le donne afghane non sono più disposte a tornare indietro. Spero che il futuro non ci riservi un’involuzione autoritaria, che ci schiaccerebbe”.
Purtroppo le previsioni più nere si sono avverate.
Enzo Polverigiani
enzo.polve@gmail.com
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