Silvio Bencini
6 agosto 2023
Ventidue anni fa l’economista della banca d’investimento Goldman Sachs, Jim O’Neill, coniò l’acronimo BRIC per indicare i quattro Paesi allora “emergenti” che avevano maggiori potenzialità di crescita, e cioè Brasile, Russia, India e Cina. Nel 2010 BRIC è diventato BRICS con l’aggiunta del Sud Africa.
Col tempo l’acronimo inventato dalla banca massima espressione della finanza americana è diventata la bandiera intorno alla quale alcuni Paesi del Sud del mondo si sono raccolti per contrastare il dominio occidentale. La connotazione geopolitica del gruppo si è accentuata con l’affermarsi della Cina come potenza globale, in grado di mettere in discussione la posizione dominante degli Stati Uniti fino alla grande crisi finanziaria.
Negli ultimi anni i BRICS hanno tenuto regolarmente riunioni di vertice. Il prossimo incontro, fissato per fine agosto a Johannesburg, ha attirato l’attenzione soprattutto per la questione diplomatica legata alla partecipazione del presidente Putin che è oggetto di un mandato di arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra, risolta con la partecipazione del Ministro degli Esteri Lavrov al posto di Putin.
Al di là di questo, l’incontro è atteso perché è il primo dopo il voto del febbraio scorso all’Onu sulla mozione di ritiro dell’esercito russo dall’Ucraina, dove, oltre all’ovvio voto contrario della Russia, tre altri BRIC, Cina, India e Sud Africa si astennero.
Inoltre, nei giorni passati, per iniziativa russa, si è tornati a parlare del desiderio di molti Paesi di affrancarsi dal peso del dollaro e degli Stati Uniti nel sistema finanziario globale, al punto di proporre la creazione di una moneta BRICS.
Cosa aspettarsi da questo incontro? Basandoci sull’esperienza passata poco, perché, come notava proprio O’Neill in un articolo scritto per il ventennale dei BRICS “the bloc’s ongoing failure to develop substantive policies through its annual summitry has become increasingly glaring.” (cioè, “è diventata sempre più evidente la continua incapacità del blocco di sviluppare politiche sostanziali, nonostante i suoi vertici annuali”, ndr)
Le ragioni di questa difficoltà nel passare dalle parole ai fatti sono diverse.
Una prima ragione è la crescita. Se confrontiamo i dati del Prodotto Interno Lordo (calcolati con il metodo della parità del potere d’acquisto, che riduce l’impatto dei tassi di cambio) dei cinque Paesi nel 2001 e nel 2019 vediamo che le economie sono cresciute a tassi molto diversi.
Se vent’anni fa la Cina rappresentava il 40 per cento del PIL dei BRICS ora il suo peso è prossimo al 60 per cento. Brasile e Russia, che nel 2001 avevano quote uguali e pari al 16 per cento, nel 2019 erano scesi al 8 e 10 per cento rispettivamente. L’India è cresciuta, ma meno della Cina, e il suo peso è passato dal 21 al 23 per cento.
Le distanze appaiono ancora più evidenti in termini assoluti. A fine 2022 l’economia cinese era diventata più grande di quella americana, a sua volta quasi doppia di quella indiana. Insieme, dunque, Cina e India costituiscono un colosso economico, oltre che demografico, con una popolazione di 2,4 miliardi di persone, pari al 87 per cento del totale dei BRICS.
Una seconda ragione è la divergenza di interessi strategici. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, e le conseguenti sanzioni internazionali, hanno rafforzato le relazioni di questo paese con Cina e India. Ma Cina e India rimangono fortemente in contrasto sia per motivi territoriali, sia nella competizione per l’influenza nel sud est asiatico.
L’India, inoltre, si è candidata per diventare una delle destinazioni del “reshoring” auspicato dai Paesi occidentali per ridurre la dipendenza dalla Cina nella produzione di beni e diversificare le catene logistiche.
Un nuovo polo geopolitico globale dovrebbe avere un leader, che oggi sarebbe naturalmente la Cina, ma per l’India questo sarebbe impensabile. La Cina, d’altro canto, ha una sua politica economica internazionale (Via della Seta, investimenti in Africa) completamente autonoma rispetto agli altri membri del club.
Il fatto paradossale è che proprio una crescita del commercio fra Cina e India, attualmente modesto, avrebbe un grande impatto sullo sviluppo dell’area e del commercio globale.
La divergenza è anche nell’assetto istituzionale. Il Democracy Index calcolato dalla Economist Intelligence Unit sintetizza in un numero che va da 0 a 10 la valutazione di un sistema politico su cinque diverse dimensioni, assegnando poi ciascun paese a quattro categorie: democrazia piena (“full”), democrazia difettosa (“flawed”, l’Italia è qui), regime ibrido (“hybrid”), regime autoritario (“authoritarian”). Il paese con un punteggio maggiore è la Norvegia (9,81) quello col punteggio minore è l’Afghanistan (0,32).
Fra i BRICS, Sud Africa, India e Brasile, con punteggi di 7,05, 7,04 e 6,78 si collocano fra le democrazie difettose, Russia e Cina, con punteggi di 2,28 e 1,96, fra i regimi autoritari. Fra i Paesi che hanno dimostrato interesse a entrare nel gruppo Argentina e Indonesia sono qualificate democrazie difettose, il Bangladesh è un regime ibrido e tutti gli altri (Algeria, Baharain, Bielorussia, Etiopia, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti) sono classificati come autoritari.
Una delle ambizioni dei BRICS era affrancarsi dalla dipendenza dal dollaro USA, ma per ora la moneta americana mantiene una posizione dominante.
A fine 2022 il 54 per cento delle riserve valutarie globali era denominato in dollari (in calo dal 70 per cento degli anni ’90), il 19 per cento in euro e il 5 per cento in yen. Erano denominate in renminbi, moneta del Paese leader dei BRICS, la Cina, solo il 2,4 per cento. Ma l’evidenza della difficoltà di creare un’alternativa al dollaro come moneta di riserva globale è nel peso crescente ma ancora relativamente piccolo dell’euro, a 24 anni dalla nascita.
In dollari è condotto oltre l’80 per cento delle transazioni commerciali, e dollari ed euro rappresentano anche le monete in cui è fatturata gran parte del commercio mondiale.
A spingere i BRICS verso la ricerca dell’autonomia dal mondo occidentale e dal dollaro sono stati, in un certo senso, gli stessi Stati Uniti. Nel novembre 2010 il Fondo Monetario Internazionale aveva incluso i Paesi BRIC tra i dieci Paesi maggiori azionisti, insieme a Stati Uniti d’America, Giappone e ai quattro più popolati dell’Unione Europea (Francia, Germania, Italia e Regno Unito) di allora.
Poiché però la proposta di ripartizione delle quote del FMI avanzata dai BRICS è stata bloccata dal Congresso degli Stati Uniti, questi ultimi hanno dato vita a una propria struttura finanziaria autonoma (New Development Bank, NDB), alternativa al FMI durante il loro sesto summit a Fortaleza, in Brasile, il 15 luglio 2014.
Successivamente hanno concluso un accordo denominato Contingent Reserve Arrangement (CRA) finalizzato a fornire temporanee linee di finanziamento a Paesi con problemi di bilancia dei pagamenti o crisi valutarie.
La NDB e il CRA sono ancora in fase embrionale. Dal bilancio (in dollari) della NDB risulta che dei 50 miliardi di dollari di capitale a fine 2022 ne erano stati versati solo 10. La banca dipende ancora per oltre il 70 per cento del suo finanziamento dal dollaro.
La CRA non ha struttura propria ed è bloccata dalla discussione sulla governance, dominata dalla Cina. Inoltre, nell’unica occasione in cui avrebbe potuto essere utile come strumento di solidarietà fra BRICS, l’esclusione della Russia dagli scambi internazionali, nessuno se l’è sentita di contrastare così esplicitamente le sanzioni americane. D’altro canto, proprio l’impatto delle sanzioni ha spinto i BRICS a considerare il lancio di una propria moneta.
In vista del prossimo incontro dei BRICS a fine agosto, la Russia ha lanciato l’idea di creare una moneta basata sulle riserve auree di questi paesi. Non conosciamo i dettagli della proposta, che arriva a cinquantadue anni dalla fine del Gold Standard decretato da Nixon il 15 agosto 1972 con l’abbandono della convertibilità del dollaro in oro.
Si ripropone anche in questo caso, però, un problema di dimensioni. Delle circa 32 mila tonnellate di riserve auree mondiali, i BRICS ne detengono 5.445 (6.200 considerando tutti i Paesi candidati a far parte del gruppo), meno degli Stati Uniti (8.133) e di quelli dell’area euro (10.774). Il “mondo occidentale” detiene oltre il 70% delle riserve auree.
Silvio Bencini*
*Silvio Bencini è managing partner di European Investment Consulting, società di consulenza per asset manager e fondi pensione.
Ha una vasta esperienza in materia di fondi pensione e sistemi pensionistici e ha ricoperto per due anni il ruolo di direttore generale ad interim di un fondo pensione aziendale. È regolarmente relatore in seminari tenuti dall’organizzazione di categoria Mefop.
Laureato con lode in economia a Torino, ha svolto tutta la sua carriera nel settore finanziario, prima come analista obbligazionario, poi come trader di derivati su tassi d’interesse per assumere successivamente ruoli di vertice. Dal 1998 al 2006 ha lavorato nel Gruppo Monte dei Paschi di Siena ricoprendo ruoli di vertice sia nella holding che nelle società controllate.
Prima di entrare in EIC ha lavorato come senior advisor per le istituzioni finanziarie e il wealth management nella practice di consulenza manageriale di Accenture.
Silvio Bencini ha ottenuto le certificazioni professionali CFA (Chartered Financial Analyst), CAIA (Chartered Alternative Investment Analyst) e PRM (Professional Risk Manager) e la certificazione CFA Institute in ESG Investing (2021).
Ha ricevuto una borsa di studio dalla Fondazione Luigi Einaudi di Roma e ha tenuto corsi e seminari presso la facoltà di Economia e Commercio di Torino, l’Università Bocconi e l’Università Bicocca di Milano.
Attualmente è professore a contratto presso l’Università Bicocca di Milano, in un corso di machine learning e finanza.
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