Cornelia I. Toelgyes
19 luglio 2023
I rappresentanti del governo sudanese sono arrivati sabato a Gedda, in Arabia Saudita, per riprendere i colloqui con i paramilitari Rapid Support Forces (RSF). I precedenti dialoghi, fortemente voluti da Washington e Riyad, erano stati interrotti all’inizio di giugno. A tutt’oggi, però non sono stati rilasciati dichiarazioni o dettagli sulle annunciate riunioni tra le parti.
Da giovedì scorso anche l’Egitto sta tentando una mediazione tra le due parti, in conflitto dallo scorso 15 aprile. Sia il governo militare di transizione di Khartoum, sia i loro nemici dell’RSF hanno accolto positivamente l’iniziativa del Cairo, visto che entrambi i generali – Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, capo delle forze armate e presidente del Sudan, e Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, leader delle RSF – hanno buone relazioni con il leader egiziano Abdel Fattah al-Sisi.
La guerra civile in Sudan, iniziata il 15 aprile scorso, continua a mietere vittime senza sosta. Nuovi scontri sono stati segnalati durante questo fine settimana a Omdurman, città gemella di Khartoum, sull’altra sponda del Nilo e a Bahri, a poca distanza dalla capitale.
Le autorità di Khartoum hanno accusato le RSF di aver colpito con droni un ospedale a Omdurman, il Medical Corps Hospital. L’attacco avrebbe ucciso almeno cinque persone.
Pochi giorni fa è stata stata scoperta anche una fossa comune con almeno 87 salme nel Darfur occidentale. In base a quanto riferito dall’ONU, nella tomba ci sarebbero anche i corpi di diversi Masalit (popolazione locale non araba la cui lingua utilizza caratteri latini, ndr), fatto che indica chiaramente che nell’area si sono svolti combattimenti a sfondo etnico.
L’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha dichiarato proprio giovedì di avere informazioni credibili sulla responsabilità delle RSF e in un comunicato l’agenzia ha specificato che tra il 20 e il 21 giugno la gente è stata costretta a seppellire i corpi vicino alla città di Geneina. Anche diverse organizzazioni non governative hanno denunciato attacchi da parte dell’RSF e delle milizie arabe contro i Masalit, della regione.
E così i paramilitari golpisti della Rapid Support Forces sono tornati alla loro vecchia principale occupazione: la pulizia etnica. In Darfur, dove sono nati, sono cresciuti e si sono sviluppati e si chiamavano janjaweed prima di essere integrati nella RSF per ripulirne l’immagine, in questi mesi di guerra hanno ripreso ad attaccare i villaggi delle etnie africane.
Ovviamente le RSF hanno negato qualsiasi coinvolgimento, definendo gli scontri in Darfur come un conflitto tribale. Ma molti temono che si possa verificare quanto accaduto tra il 2003-2005. Allora, durante il sanguinario conflitto nella regione sono state uccise oltre 300.000 persone e altre 2.5 milioni hanno dovuto fuggire abbandonando le loro case.
Indicibili le violenze subite dalla popolazione. I janjaweed, “diavoli a cavallo” (come li chiamava la popolazione) bruciavano i villaggi, stupravano le donne, uccidevano gli uomini e rapivano i bambini per renderli schiavi.
La Corte Penale Internazionale ha avviato indagini dopo segnalazioni di esecuzioni sommarie, incendi di case e mercati e saccheggi a Geneina, nonché uccisioni e trasferimenti forzati di civili nel Darfur settentrionale e in altre località della regione. Inoltre, la CPI sta esaminando le accuse di crimini sessuali e di genere, stupri di massa e presunte segnalazioni di violenze contro minori.
Nei tre mesi di guerra in Sudan sono morte almeno 3.000 persone, ma probabilmente sono molte di più. Inoltre, secondo gli esperti, oltre tre milioni hanno lasciato le proprie casa. Molti sudanesi cercano protezione nei Paesi limitrofi, come il vicino Ciad, dove a Adré, città al confine con il Sudan, ogni giorno arrivano fino a 2.000 rifugiati dal vicino Darfur.
I fuggiaschi, una volta al sicuro, hanno raccontato storie agghiaccianti. “Vogliono sterminarci, hanno massacrato senza pietà donne, bambini, vecchi e persino il nostro bestiame. Nessuno è stato risparmiato”, ha detto una donna ai reporter di RFI. “Ci hanno inseguito fino al confine e la strada è disseminata di cadaveri”, ha poi aggiunto la signora, che ora vive con altri 120.000 persone in un liceo di Adré, trasformato in un campo per profughi improvvisato. La rifugiata sudanese ha poi sostenuto: “E’ tutto opera degli uomini di Hemetti e delle milizie arabe, i loro alleati”.
Cornelia I. Toelgyes
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