Da +972 Magazine
Orly Noy*
7 luglio 2023
Mentre i tamburi dei manifestanti israeliani continuavano a battere a Tel Aviv, all’aeroporto Ben Gurion e in altre località del Paese questa settimana, l’esercito israeliano ha iniziato a concludere la brutale invasione e l’assalto al campo profughi di Jenin, che ha lasciato dietro di sé distruzione, devastazione e sangue.
La vista dei rifugiati palestinesi che fuggono dalle loro case al buio, con le mani alzate sopra la testa, non evoca solo il ricordo della Nakba. Ricorda che l’espropriazione dei palestinesi non è mai finita: queste stesse famiglie hanno perso le loro case nel 1948 o sono i discendenti di coloro che le hanno perse.
I palestinesi sanno bene di trovarsi di fronte a uno Stato bellicoso e disinibito che, con la scusa della sicurezza e del vittimismo, non risparmierà alcuno sforzo: espropri, uccisioni, pulizia etnica. E forse il peggio deve ancora venire.
Israele è abituato a presentare al mondo l’occupazione come una questione interna israeliana, mentre i suoi cittadini ebrei sono abituati a trattarla come una questione estera, scollegata dalla vita quotidiana, come una guerra in qualche paese lontano.
Questo, insieme al militarismo profondamente radicato e al culto cieco dell’esercito nella società israeliana, fa sì che non solo le proteste antigovernative non si siano espresse contro l’assalto a Jenin, ma che i suoi leader abbiano addirittura elogiato gli “uomini coraggiosi” che hanno preso parte all’invasione – gli stessi che, tra l’altro, hanno bombardato il Teatro della Libertà di Jenin, che funge da esempio di spirito umano in mezzo all’inferno che Israele ha creato nel campo.
Come al solito, sono stati i cittadini palestinesi di Israele che, insieme a una manciata di attivisti ebrei, hanno immediatamente guidato la protesta contro i crimini dell’esercito a Jenin, affrontando a loro volta gravi violenze da parte della polizia. Nel frattempo, si sono sentite deboli critiche anche da parte di alcuni esponenti della sinistra sionista, che hanno accusato il Primo Ministro Benjamin Netanyahu di aver lanciato un’operazione militare per distogliere l’attenzione dalla protesta pubblica contro di lui e per metterla a tacere.
Tuttavia, non dobbiamo ridurre l’invasione di Jenin a un calcolo politico di Netanyahu contro il movimento di protesta. L’oppressione dei palestinesi non è iniziata lo scorso gennaio con l’inizio delle manifestazioni, né finirà quando queste cesseranno.
I frequenti e mortali attacchi a Jenin, così come le aggressioni di routine a Gaza, la pulizia etnica in corso nei territori occupati, l’incoraggiamento dei pogrom dei coloni e la repressione dei palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde – tutto fa parte di una più ampia politica israeliana formulata con agghiacciante precisione in quello che il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich chiama il suo Piano Decisivo, che cerca di mettere in ginocchio i palestinesi e di espellere all’ingrosso coloro che rifiutano di piegare la testa.
Coloro che desiderano lottare per una vera democrazia devono abbandonare il narcisismo ebraico-israeliano che ci impedisce di aprire gli occhi sui luoghi in cui Israele calpesta non solo l’idea di democrazia, ma l’idea stessa di ciò che significa essere umani, e iniziare la nostra lotta da lì.
Orly Noy*
*Orly Noy è un’attivista politica e giornalista Mizrahi, cioè ebrea di origine mediorientale, nata in Iran. È redattrice di Local Call, presidente del consiglio di amministrazione di B’Tselem, il Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati, traduttrice di poesia e prosa dal farsi in ebraico e attivista del partito nazionale democratico palestinese Balad.
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