16 giugno 2023
Il wali (parola araba per governatore) del Darfur occidentale, Khamis Abakar, è stato rapito da uomini armati mercoledì sera nella sua casa a Geneina e poi assassinato.
Solo due ore prima del suo sequestro, il governatore, durante una intervista televisiva telefonica all’emittente TV Al-Hadath, aveva accusato pubblicamente i paramilitari di Rapid Suport Forces, capeggiati da Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemetti, e le sue milizie armate arabe di aver ucciso civili a Geneina, capoluogo del Darfur occidentale.
Abakar aveva anche lanciato un appello alla comunità internazionale, chiedendo un loro intervento, perché l’esercito sudanese e le forze congiunte dei movimenti armati del Darfur non sarebbero in grado di proteggere gli abitanti.
“Nella regione è in corso un genocidio e quindi abbiamo bisogno di un intervento internazionale per proteggere la popolazione della regione”, aveva dichiarato il governatore. Già prima della guerra in Darfur le comunità arabe e non arabe erano in lotta per le scarse risorse idriche e per questioni di terreni coltivabili e pascolo.
Da alcuni filmati circolati sui social media nella tarda serata di mercoledì, si vede un gruppo di uomini armati, alcuni dei quali con uniformi di RSF, mentre stanno arrestando Abakar. E, secondo il quotidiano online Sudan Tribune, il comandante di RSF nel Darfur occidentale, Abdel Rahman Jumma, è apparso in un video che mostra l’arresto del governatore prima di essere brutalmente ammazzato.
Le forze armate sudanesi, capeggiate dal presidente, Abdel Fattah al-Burhan, in un post pubblicato su Facebook, hanno accusato i paramilitari di RSF di aver sequestrato e brutalmente ucciso il wali del Darfur occidentale.
Diversi gruppi (Sudan Revolutionary Front (SRF) di Hadi Idris, Sudan Liberation Movement-Minni Minnawi e Justice and Equality Movement (JEM) Gibril di Ibrahim), firmatari dell’accordo di Juba, hanno rilasciato dichiarazioni di condanna dell’assassinio del governatore. Tuttavia non hanno accusato le RSF dell’uccisione del politico.
In Darfur, dove i paramilitari di Hemetti sono nati, sono cresciuti e si sono sviluppati e si chiamavano janjaweed prima di essere integrati nella RSF per ripulirne l’immagine, hanno ricominciato ad attaccare i villaggi delle etnie africane, bruciando le capanne ammazzando gli uomini e distruggendo ogni cosa.
Ma i paramilitari negano qualsiasi coinvolgimento nei massacri in Darfur. E in un comunicato di ieri, le RSF ritengono la situazione nella parte occidentale della regione come risultato di una lotta tribale. Puntano il dito sull’intelligence militare sudanese, un’ala delle forze armate sudanesi (SAF), e sui suoi sostenitori islamisti radicali, legati all’ex regime del dittatore Omar al-Bashir, ritenendoli responsabili nell’ alimentare il conflitto, armando le tribù.
Alcuni residenti fuggiti nel vicino Ciad, intervistati recentemente da Al Jazeera, hanno raccontato di aver visto uomini con uniformi della RSF insieme a gruppi armati arabi.
Matthew Miller, portavoce del dipartimento di Stato di Washington, ha detto che gli USA sono molto preoccupati per le violenze etniche commesse dalle forze paramilitari, capitanate da Hemetti e dalle milizie alleate nel Darfur occidentale. Ha poi evidenziato che le atrocità che si stanno consumando nella zona, ricordano in modo inquietante gli orribili eventi del genocidio del 2004. Miller ha poi condannato ovviamente anche l’uccisione del governatore.
Insomma, dopo due mesi di lotta per il potere, i due generali non sono ancora pronti a sedersi al tavolo delle trattative, malgrado la disperata situazione umanitaria.
Secondo le Nazioni Unite, circa 2,2 milioni di persone sono state costrette a abbandonare le proprie case, tra loro 528.000 hanno cercato rifugio nei Paesi limitrofi, e si stima che 25 milioni di persone abbiano bisogno di assistenza umanitaria.
Armed Conflict Location & Event Data Project (ONG specializzata nella raccolta di dati, analisi e mappature dei conflitti nel mondo), ritiene che nei due mesi di guerra siano morte oltre 2.000 persone, ma si teme che il numero reale sia molto più alto.
Interi quartieri della capitale Khartoum sono stati distrutti, ormai praticamente abbandonati dopo la fuga dei residenti. Per non parlare della regione occidentale del Darfur, dove i combattimenti hanno assunto una propria dimensione etnica, contrapponendo le comunità arabe a quelle non arabe.
Il conflitto non si è fermato alla capitale, dove i servizi essenziali sono praticamente inesistenti e gran parte degli ospedali non sono più in grado di operare per mancanza di personale, medicinali e tutto il resto.
I combattimenti si sono estesi in gran parte Paese, oltre in Darfur, come detto, anche a Merowe, una città del nord non lontana dal confine con l’Egitto, zona ricca di miniere aurifere, e base militare.
Dopo la rivolta popolare che ha fatto sì che i militari rovesciassero l’ex presidente Omar al-Bashir nel 2019, nei sudanesi si erano accese speranze di democrazia.
Nel 2021, i due generali al-Bashir e Dagalo, le cui forze si combattono oggi, hanno orchestrato un colpo di Stato mettendo fine al già fragile accordo di condivisione del potere tra leader militari e civili, che avrebbe dovuto portare il Paese alle elezioni.
Ma ben presto si sono manifestati disaccordi per quanto riguarda l’integrazione delle RSF nell’esercito regolare. Ed ora tutte le aspettative, i sogni dei sudanesi, sono sepolti sotto le macerie.
Africa ExPress
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