Dal Nostro Corrispondente Sportivo Costantino Muscau
Nairobi, giugno 2023
“Dio mi ha scelto per lanciare un messaggio contro il razzismo. Mi sento onorato di essere stato colui che ha illuminato le vite degli altri e ha dato loro speranza. Inizialmente avevamo programmato dì boicottare le Olimpiadi. Poi qualcuno ci disse: se non ci andate voi, andrà qualche altro. E allora decidemmo per la clamorosa pacifica protesta sul podio col saluto di Potere nero.“
Un saluto che ha segnato una svolta nella lotta contro il razzismo, è diventata un’icona del XX secolo, ma che è costato la carriera a chi lo ha fatto.
Ci sono delle persone che rischiano tutto per valori fondamentali, non negoziabili, immarcescibili, eterni.
Una di queste è John Carlos, 77 anni, nero americano, oggi con una candida barba che gli incornicia il mento affilato.
Dopo quasi 55 anni, John Carlos approfitta di una visita in Kenya per ricostruire retroscena, origine e spiegazione di un atto eroico passato meritatamente alla storia.
John Carlos il 16 ottobre 1968, ai XIX Giochi Olimpici di Città del Messico, veniva premiato con la medaglia di bronzo, conquistata nella finale dei 200 metri. Il suo compagno e collega Tommie Smith riceveva la medaglia d’oro.
Durante la cerimonia, mentre veniva eseguito l’inno americano, entrambi piegarono la testa e alzarono un pugno guantato di nero. Entrambi erano scalzi. Il gesto era in solidarietà con il movimento dei diritti civili americani.
Immediatamente, senza tanti complimenti, vennero cacciati dallo stadio, sommersi da insulti, sputi, lancio di oggetti vari. (“Una scena che avevo vissuto come premonizione 15 anni, prima, da bambino”, ha confessato Carlos nel suo recente viaggio in Kenya).
Senza perdere un attimo il Comitato Olimpico Internazionale, presieduto dal controverso Avery Brundage, li espulse da quelle Olimpiadi e da quelle a venire. Banditi a vita dal mondo dello sport nazionale e internazionale.
Solo la comunità nera americana li celebrò come eroi per aver sacrificato la gloria personale a favore di una giusta, giustissima causa: quella contro la discriminazione razziale che all’epoca dilagava (non è che mezzo secolo dopo la situazione sia così rosea…).
Solo nel 2005 l’università statale di San José raccolse i fondi per erigere una statua in loro onore e nel 2016 il presidente Barack Obama e il suo vice John Biden tributarono loro alla Casa Bianca quell’ onore negato nel’68.
“Con quel saluto John ha fatto molto per cambiare il mondo in un epoca in cui il razzismo negli USA era violento”, ha commentato l’altro giorno, Charles Asati, 77 anni, il keniano medaglia d’argento nella staffetta 4×400, nella stessa Olimpiade messicana, e medaglia d’oro a Monaco ‘72. “Non ci vedevamo dal 1968”, ha aggiunto raggiante Asati, abbracciando il coetaneo a Nairobi.
“In verità- ha raccontato John in due lunghe interviste rilasciate a The Daily Nation e alla NTV – avevamo pianificato di boicottare i giochi messicani. Però ci dispiaceva buttare via la preparazione effettuata; e poi qualcuno ci fece notare che chi avesse preso il nostro posto non avrebbe rappresentato ciò che avevamo in mente di compiere. In effetti vincere era solo un modo per partecipare alla cerimonia, della medaglia in sé ci interessava abbastanza poco.
Così decidemmo di andare in Messico. Finita la gara mi sono detto “John è giunto il momento di fare ciò per cui sei venuto qui”. Non potevo perdere le lezioni di un impegno non violento contro le ingiustizie e la segregazione apprese da Malcom X, che avevo frequentato da giovane per un anno e mezzo, o quella di Martin Luther King, che aveva incontrato appena 10 giorni prima del suo assassinio. Tommie si è dichiarato d’accordo e quel che è successo lo sapete tutti”.
Ci sono però dei dettagli finora poco noti (o dimenticati) che riguardano la simbologia racchiusa in quel gesto.
“Ci togliemmo le scarpe per far presente che nel più potente Paese del mondo tanti poveri camminavano scalzi; le calze nere rappresentavano l’America nera; la collana di perline al collo era per ricordare che tanti neri erano stati linciati. Tommy si coprì la testa con una sciarpa nera per esaltare l’orgoglio nero, io nascosi la divisa della nazionale con una camicia nera, perché mi vergognavo dell’America. Lasciai lo stadio un po’ sconvolto, giovane come ero, ma ben consapevole di essere stato scelto da Dio per fare quello che avevo fatto”.
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