Situazione catastrofica in Darfur: i janjaweed hanno ripreso la loro attività più congeniale: la pulizia etnica

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Africa ExPress
Khartoum, 28 aprile 2023

Mentre in Sudan tutte le tregue pattuite quotidianamente sono immediatamente violate e gli scontri proseguono quindi interrottamente, i paramilitari golpisti della Rapid Support Forces sono tornati alla loro vecchia principale occupazione: la pulizia etnica.

Sudan: case e campi per sfollati bruciati nel Darfur occidentale

In Darfur, dove sono nati, sono cresciuti e si sono sviluppati e si chiamavano janjaweed prima di essere integrati nella RSF per ripulirne l’immagine, hanno ricominciato ad attaccare i villaggi delle etnie africane, bruciando le capanne ammazzando gli uomini e distruggendo ogni cosa. I morti sono almeno 96 e i feriti un paio di centinaia. In quell’area l’obbiettivo sono i masalit, popolazione musulmana sì ma non araba, che vive a cavallo tra Sudan e Ciad. Si pensi solo che la loro lingua è scritta in caratteri latini e non arabi.

A Genina, capitale della tribù, il sultano dei masalit, Saad Abd al-Rahman Bahr al-Din, ha definito la situazione “catastrofica” e ha tracciato un quadro desolante: “I feriti non possono raggiungere ciò che resta degli ospedali e delle cliniche e i corpi che giacciono nelle strade non possono essere seppelliti a causa dei continui attacchi”.

Martedì alcuni uomini armati in sella alle loro moto e in SUV di grossa cilindrata hanno assaltato diversi villaggi  e circondato diversi campi per sfollati. Gli attacchi hanno provocato un numero imprecisato di morti e feriti. Molti altri sono fuggiti.

Il sultano ha lanciato un appello alle organizzazioni umanitarie affinché forniscano assistenza urgente alle persone colpite dagli scontri tribali.

Ha poi aggiunto che potrebbe anche riconsiderare l’accordo “Gilani” firmato dal Sultanato di Dar Masalit nel 1919-1921 con Francia e Gran Bretagna, secondo il quale Dar Masalit si sarebbe unito al Sudan nel 1922. In poche parole, non esclude azioni separatiste future.

Il sultano dei Masalit, Saad Abd al-Rahman Bahr al-Din

Anche oggi è stata ignorata la tregua. I due generali, Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Sudan e comandante delle forze armate, da un lato, e Mohamed Hamdan Dagalo, chiamato Hemetti, vicepresidente del Paese e capo dei paramilitari golpisti delle Rapid Suport Forces, dall’altro, avevano aderito a un cessate il fuoco, prolungato di altre di 72 ore.

Eppure la capitale e la vicina città di Bahri sono state nuovamente teatro di violenti scontri. Raid aerei, colpi di artiglieria pesante e mitragliatrici hanno fatto tremare gli abitanti.

Un aereo turco, addetto all’evacuazione, è stato colpito mentre era in fase di atterraggio all’aeroporto militare di Wadi Saeedna a pochi chilometri da Khartoum. Il ministero della Difesa di Ankara ha confermato, sottolineando che l’aereo è riuscito a atterrare; nessuno è stato fortunatamente ferito.

Sudan: le strade di Khartoum in tempo di guerra

Vista l’insicurezza aerea gli USA hanno noleggiato diversi bus per portare i propri cittadini, che hanno chiesto di essere evacuati, a Port Sudan. L’amministrazione di Biden ha scelto il percorso stradale, in quanto può essere monitorato con i droni dall’esercito USA.

La partenza del personale diplomatico e delle loro famiglie è avvenuto con un blitz quasi una settimana fa. In un primo momento il governo americano non ha programmato la messa in sicurezza degli altri suoi cittadini. Non è stato subito chiaro quanti fossero presenti nel Paese al momento dello scoppio della guerra e quanti tra loro volessero realmente partire, visto che molti hanno doppia nazionalità, quella sudanese e quella statunitense.

Secondo il New York Times, una evacuazione a volte comporta anche conflitti personali, alcuni aggravati da requisiti burocratici, che possono lasciare le famiglie di fronte a decisioni strazianti.

Finora sono falliti anche tutti tentativi messi in campo dalla comunità internazionale e dei Paesi vicini per far tacere le armi e portare alla ragione i due contendenti.

Miliziani janjaweed in cammello fotografati in Darfur

Mercoledì sera, l’esercito ha annunciato di aver accettato di inviare un rappresentante a Juba, la capitale del vicino Sud Sudan, per colloqui con la RSF; una iniziativa dell’IGAD, un’organizzazione politico-commerciale formata dai Paesi del Corno d’Africa. Dal canto loro, i paramilitari non hanno nemmeno commentato tale proposta.

Martin Griffith, sottosegretario generale dell’ONU per gli Affari umanitari e coordinatore degli aiuti d’emergenza, in un tweet di poco fa ha fatto sapere che continuano i saccheggi negli uffici dell’organizzazione a Kharoum, Nyala (Sud Darfur) e Genina (West Darfur). Ha poi aggiunto: “Fatti inaccettabili e vietati dal diritto umanitario internazionale”.

La guerra tra i due generali sta limitando la distribuzione di cibo in un Paese dove un terzo dei suoi 46 milioni di abitanti dipende dagli aiuti umanitari. Ora, secondo il World Food Programme, le violenze in atto potrebbero far sprofondare altri milioni di persone in stato di necessità alimentare.

Almeno 20.000 persone sono fuggite in Ciad, 4.000 in Sud Sudan, 3.500 in Etiopia e 3.000 nella Repubblica Centrafricana. E l’ONU è molto preoccupata: se i combattimenti continueranno, potrebbero chiedere protezione nei Paesi limitrofi fino a 270 mila persone.

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