Massimo A. Alberizzi
Milano, 25 aprile 2023
In Sudan infuria la battaglia tra l’esercito governativo e le milizie paramilitari che hanno tentato un colpo di Stato. Il centro di Khartoum è ridotto a un cumulo di macerie e non si vede la luce alla fine del tunnel della guerra.
Il caos sudanese ha portato in evidenza la fragilità delle alleanze internazionali messe a dura prova, appena, se ne presentata l’occasione, dagli interessi economici privati e pubblici. Nell’ex protettorato anglo-egiziano si scontrano le ambizioni di due generali: Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Consiglio Militare Sovrano di Transizione, e il suo omologo e vicepresidente dello stesso Consiglio, Mohamed Hamdan Dagalo, uno dei cinque uomini più ricchi del Paese. I due, che hanno costruito la loro carriera all’ombra del dittatore e altro generale Omar al-Bashir, nel 2019 l’hanno rovesciato.
Al-Burhan è capo dell’esercito, cioè guida le forze armate, Dagalo, conosciuto con il soprannome di Hemetti, è il comandante delle Rapid Support Forces, una milizia paramilitare formata da bande di arabi, i cosiddetti janjaweed, tagliagole, banditi, saccheggiatori, dediti all’abigeato, la cui consistenza è valutata in centomila uomini.
Janjaweed è un neologismo, un nomignolo storpiato, che nell’arabo sudanese significa “Diavoli sterminatori a cavallo”. Sono diventati famosi all’inizio degli anni 2000 quando è scoppiata la guerra in Darfur. Arrivavano di notte come furie a dorso di cavalli o cammelli nei villaggi africani, davano alle fiamme le capanne, uccidevano gli uomini, stupravano le donne e rapivano i bambini. Razziavano gli armenti, arricchendosi a dismisura. Insomma, banditi fiancheggiatori della dittatura. I loro leader erano capibanda ignoranti e illetterati, come per altro lo è Dagalo che, per esempio, chiama il ministro dell’istruzione, “ministro della lettura”. Si calcola che la guerra in Darfur abbia provocato almeno 300 mila morti.
I due generali ora si accusano vicendevolmente di non aver voluto cedere il potere a un governo civile. Ma la verità probabilmente sta nel fatto ce nessuno dei due voleva integrare i loro eserciti, come era nei patti. E poi, soprattutto, nessuno voleva cedere il controllo delle risorse minerarie naturali, prime tra tutte le miniere d’oro.
Al-Burhan e Dagalo non combattono da soli, dietro di loro c’è una moltitudine di attori internazionali che fanno la loro parte. Alcuni apertamente, altri più discretamente; sono in tanti ad essere impegnati nello scacchiere.
Stati Uniti e Russia in Sudan sono occupati in una guerra a distanza. A nessuno di loro pare che importi granché (se non a parole) della gente che muore. Washington sostiene non troppo velatamente il generale Abdel Fattah al-Burhan, nonostante che abbia ceduto l’uso di alcuni porti del Mar Rosso a Mosca e ai suoi mercenari. In cambio del sostegno americano – sostengono osservatori indipendenti e Khartoum – avrebbe promesso la revoca di qualunque concessione ottenuta senza il beneplacito della Casa Bianca.
Ma il generale presidente è appoggiato anche dal partito islamista e dai nostalgici del vecchio dittatore Omar Al Bashir che sperano di riprendersi quegli importanti privilegi perduti con la sua defenestrazione.
Lo scacchiere si complica quando tra i sostenitori di Al Burhan si trova anche Israele che stava per normalizzare i suoi rapporti con il Sudan, speranza naufragata con lo scoppio della guerra civile.
Dalla parte del presidente è schierato anche l’Egitto e il suo leader Abd al-Fattāḥ Al Sisi che a casa sua sbatte in galera gli islamisti. Dalla stessa parte anche Unione Europea, Gran Bretagna, Uganda che chiedono il passaggio a un governo civile e vorrebbero l’integrazione dei paramilitari nell’esercito regolare.
Un ruolo ambiguo lo recita l’Italia che addestra nella base militare di El Obeid i paramilitari dei tagliagole janjaweed del Rapid Support Forces, per ammissione dello stesso generale Dagalo Hemetti, loro capo.
Africa ExPress e il Fatto avevamo già denunciato che una delegazione ad alto livello dei servizi segreti italiani il 12 gennaio 2022 si era recata a Khartoum e aveva incontrato Dagalo con il quale aveva pianificato il programma di addestramento.
Abbiamo scritto che a guidare quella delegazione era il colonnello Antonio Colella, invece l’ufficiale faceva solo parte della delegazione, il cui capo era addirittura il direttore dell’AISE, Agenzia informazioni e sicurezza esterna, cioè lo spionaggio italiano, il generale d’armata Giovanni Caravelli. Presidente dell’AISE ora è Giorgia Meloni.
Nella delegazione era presente anche la presidente e fondatrice dell’NGO Ara Pacis, Nicoletta Gaida, accusata dai francesi di essere “troppo vicina ai servizi segreti italiani”. Ufficialmente gli italiani hanno assegnato alle milizie janjaweed il compito di controllare i confini con la Libia per impedire il passaggio dei migranti. Incarico che è stato eseguito con violenza, soprusi e violazioni dei diritti umani congeniali a quelle bande di tagliagole.
Dall’altra parte della barricata, cioè a fianco di Dagalo, troviamo prima di tutto i mercenari del gruppo Wagner e il suo fondatore Yevgeny Prigozhin, secondo gli americani, legato a corda doppia al Cremlino. Se gli italiani hanno addestrato le sue milizie, i russi le hanno armate. Sembra assurdo invece, direbbe Humphrey Bogart, “questa è la geopolitica, bellezza!”.
Secondo gli americani, Prigozhin, ha offerto armi ai paramilitari, ma naturalmente anche lui a parole si spende per la pace e addirittura si dice pronto a mediare tra le parti. Prigozhin ha ottenuto da Dagalo le concessioni delle miniere d’oro e i suoi uomini possono lavorare in pace grazie alla sicurezza assicurata dal territorio dai miliziani.
Dagalo negli anni scorsi ha anche inviato un contingente dei suoi uomini in Yemen e così a casa sua ha incassato il sostegno di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti e naturalmente della Cina la cui penetrazione in Africa è diventata sempre più palpabile.
Ormai nel continente il piccolo commercio è tutto nelle mani dei cinesi i cui metodi di conquista sono completamente diversi da quelli Occidentali. Pechino concede prestiti per costruire opere faraoniche, poi quando il debito dei Paesi diventa insostenibile per saldarlo si fa dare la gestione di porti, aeroporti, banche e altre infrastrutture economiche. I ristoranti cinesi di Khartoum sono gli unici in cui si può bere alcool senza paura di essere messi in galera dalla polizia.
Altra sorpresa è la collocazione a fianco di Dagalo del generale libico Kalifa Haftar, che comanda il parlamento di Tobruk in opposizione al governo di Tripoli. In patria Haftar gode del sostegno di Russia, Egitto ed Emirati, oltre ad avere un debito di riconoscenza con la CIA che l’ha scoperto e poi creato. Ma anche i kenyoti che assicurano di essere neutrali, in realtà pendono dalla parte di Dagalo.
Piccola annotazione finale riguardante l’evacuazione degli italiani da Khartoum. L’italia sostiene di aver caricato sull’aereo anche cittadini stranieri “perché noi non lasciamo indietro nessuno”. Sembra però che anche gli altri non abbiano lasciato indietro gli italiani giacché il secondo gruppo di connazionali è volato dalla capitale sudanese a Gibuti con un aereo spagnolo. Eppure i C130 Hercules italiani erano due. Che fine ha fatto il secondo? I sospetti indicano un’avaria. Non vorremmo che impossibilitato a volare sia stato abbandonato da qualche parte.
Il puzzle sudanese non finisce di stupire.
Massimo A. Alberizzi
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